Tra studiosi e cultori d’arte c’è grande fermento per il capolavoro di Johannes van der Meer (meglio conosciuto con Jan Vermeer) La ragazza col turbante, esposta a Bologna all’interno di una mostra dedicata al mito della Golden Age.
L’impazienza è causata dalla fama del dipinto e dall’alone di mistero che le si attribuisce, nonché dalle scarse notizie sull’autore. Il quadro è da tutti, infatti, riconosciuto come il più famoso e il più ammirato dopo la Gioconda. Tuttavia l’ammirazione e l’attrattiva, che hanno già causato una pioggia di prenotazioni, sono dovute anche alle rievocazioni in letteratura: la prima del 1986 La ragazza col turbante della scrittrice Marta Morazzoni e la seconda, più celebre, del 1999 La ragazza con l’orecchino di perla di Tracy Chevalier. Quest’ultima, ormai best sellers, da vita all’opera e narra la storia della sua creazione, da un’identità alla modella, racconta di un platonico amore e spiega quel viso di fanciulla volta di tre quarti che colpisce in particolar modo per l’espressione estetica, languida e seducente.
Tanta premessa per enunciare il film che da tutto questo prende spunto. Dal libro della Chevalier è infatti tratta l’omonima pellicola, interpretata sapientemente da un cast meritevole e diretto dal regista Peter Webber. Il lungometraggio, uscito nelle sale nel 2003, è stato candidato a tre premi Oscar e rivive le pagine del libro riassumendo, in dettaglio, le vicende che portarono alla composizione del dipinto attraverso la vita di uno dei massimi pittori olandesi del 1600: Jan Vermeer. La pellicola appare subito notevole per le rievocazioni storiche, le ambientazioni ricostruite e la fotografia che ha il potere di ridare vita agli scenari olandesi del seicento tra i canali, il freddo pungente e le scene di vita famigliare che si ritrovano nel realismo di quell’arte nord europea.
La storia si svolge a Delft, all’interno della casa del pittore Jan Vermeer (Colin Firth) dove viene mandata a servire una giovane fanciulla Griet (Scarlett Johansson). La proiezione si concentra sul rapporto tra i due eliminando ulteriori avvenimenti presenti nel romanzo: si concentra sulla complicità tra un pittore, che non riesce a produrre più di due o tre quadri all’anno data la sua smania di perfezione e che porta avanti con difficoltà il suo tenore di vita a causa della prole che cresce a vista d’occhio sotto il tetto coniugale, e una giovane serva, poco erudita e priva di cultura ma con un’ingenita sensibilità nei confronti dell’arte e della pittura.
A Griet viene dato l’incarico di pulire e riassettare lo studio del maestro ed è lì che si appassiona all’estetica pittorica e alla tecnica, la vediamo interagire con una camera oscura, strumento realmente usato da Vermeer e dai suoi contemporanei, si dedica alla preparazione dei colori e pian piano entra nel mondo ermetico dell’artista. Naturalmente questo genera gelosie ed invidie nei confronti della moglie (Essie Davis) che la manderà via appena consapevole del magnifico ritratto eseguito, per altro con i suoi orecchini di perla.
La narrazione scorre lenta e soave tra le mura domestiche, il regista ricalca la figura di un pittore all’interno della sua vita privata, tra gli affetti famigliari e l’amore, isolato e maniacale, per la sua arte. Vermeer fu un pittore connesso agli stili del suo tempo, diede vita ad una espressione realistica propria caratterizzata dalla luce e dalla poetica degli interni; aspetti insiti nel film e riproposti abilmente dalla regia. Nella narrazione, si palesa, quasi subito, l’incanto tra il pittore e la serva, timida e riservata fanciulla affascinata dall’arte, dai colori e dalla luce intrappolata in essi. Questa caratteristica non è altro che un’ulteriore calamita tra i due, i quali, unici protagonisti indiscussi del film, danno vita ad un dialogo fatto di sguardi intensi, di sospiri e di una segreta complicità che solo il cinema poteva essere in grado di mettere in scena.
Le vicende narrative si intrecciano con inequivocabili verità sul maestro della luce olandese e il film colpisce, non tanto per la congettura attorno al quadro, quanto per la messa in scena di un racconto intimo, quasi come fosse un intruso nelle segrete di un amore ideale.
Si può infine notare come la pellicola sia di fatto ispirata completamente al libro, non solo per le vicende narrate ma anche per l’esposizione melodrammatica e romanzata che comunque ricalca in pieno le aspettative del fruitore, ma forse (unica nota dolente) svilisce un tantino quel cultore d’arte che, ancora una volta vede crescere e insediarsi sempre più con forza l’interesse suscitato dall’opera, non tanto per le caratteristiche stilistiche quanto per il pettegolezzo più semplice: chi mai potrebbe essere la ragazza con l’orecchino di perla? Una mera curiosità quindi, non un’ammirazione stilistica, legata più alle vicende da salotto che alla stima per la maestria dell’utilizzo della luce, memore di Rembrant o Caravaggio e ancor più unica nel suo modo di scomporsi e ricomporsi nelle tele.
La maggior parte delle opere d’arte del passato sono intrise di mistero, quasi ognuna di esse ha piccoli o evidenti dettagli nascosti, la maggior parte di esse però rimane nell’ombra agli occhi del grande pubblico e soccombe ad opere (dall’indiscussa magnificenza) misteriose solo perché forse potrebbero celare relazioni proibite o identità misteriose, tendenza largamente accolta dal cinema che fa sue le provocazioni enfatizzando accaduti reali e di fantasia.