Al centro de L’immensità di Emanuele Crialese, in concorso per il Leone d’oro alla 79° edizione della mostra del cinema d’arte cinematografica di Venezia, c’è, come spesso accade nei suoi film, una famiglia frammentata e problematica.
Roma, fine anni ’60. Clara (Penelope Cruz) e Felice (Vincenzo Amato) si sono appena trasferiti nella periferia in espansione della capitale, in un nuovo appartamento dove regna il lusso e il design. La coppia ha tre figli: Adriana, la maggiore, Gino e Clara. La primogenita ha appena compiuto 12 anni ed è la testimone attentissima degli stati d’animo della mamma e delle tensioni crescenti tra i genitori. Rifiuta il suo nome, preferendo Andrea, e la sua identità, vuole convincere tutti di essere un maschio. Questa sua ostinazione porta il già fragile equilibrio familiare ad un punto di non ritorno.

L’immensità è un film su un tenero rapporto madre-figlia e su un nucleo familiare che non riesce a dare protezione e diventa una prigione senza sbarre. A rendere il clima più teso c’è anche la complicata situazione della prima figlia e della sua identità di genere.
Tutto squisitamente italiano (nonostante Penelope Cruz): situazioni al limite mostrate per muovere lo spettatore ad una scontata immedesimazione e temi complessi affrontati con la tipica superficialità del Bel Paese; vola qualche ceffone, si guarda il varietà in TV, si canta e si balla. In sostanza, si ha la sensazione di guardare un episodio di una fiction, soltanto realizzata con un po’ di attenzione in più.
Il tema dell’omosessualità e dell’identità di genere riguarda personalmente il passato di Crialese e forse al regista romano e a Francesca Manieri e Vittorio Moroni, autori col regista della sceneggiatura, è sembrato un soggetto enorme e autosufficente. Di conseguenza non hanno curato a fondo i dialoghi di un film verboso e prolisso. Spesso e volentieri le battute che si scambiano gli attori sono macchinose e costellate di termini slegati dalla realtà.

A conferma della scarsa qualità della scrittura, oltre al rapporto madre-figlia dolce e al tempo stesso difficile, con qualche momento “pazzerello” che tanto ricorda La prima cosa bella di Virzì (altro film che ha il titolo di una canzone pop), vengono inseriti pesantissimi “momenti onirici” dove i protagonisti si immaginano al posto di Mina o Celentano nei varietà. La buona fotografia che esalta gli ambienti (stilosi per contratto) che caratterizza il film in queste sequenze vira al bianco e nero, la macchina da presa volteggia in maniera sterile e solo decorativa verso l’alto e lo spettatore medio è felice e sorpreso di assistere ad una rievocazione kitsch di storia della TV.
Peccato, il regista di Terraferma aveva dimostrato di saper adoperare il mezzo cinematografico con cognizione di causa, ma questa volta, proprio nel suo film più intimo e personale, non riesce a fare breccia nello spettatore cinefilo che già diverse volte ha masticato e digerito storie simili e non si accontenta di una bella fotografia.
Ben presto, L’immensità di Crialese, approderà in televisione in prima serata con i sentiti ringraziamenti delle ditte di arredamento e di moda, unici elementi positivi di un film fatto discretamente male, con un tema caldo (negli schermi italiani, piccoli o grandi che siano) e già sfruttato fino all’ultima goccia. C’era bisogno?