Un cavallo sul tapis roulant. Così si apre El Jokey dell’argentino Luis Ortega (già apprezzato con la regia de L’angelo del crimine). Il film sudamericano è sempre in bilico tra tragedia e commedia ed è presentato in concorso all’81°mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia .
Remo Manfredini (Nahuel Pérez Biscayart) è una leggenda dell’equitazione: soldi, successo e gloria. Spesso le leggende però non reggono il peso di esserlo e si danno alla dissolutezza: fumo, droga, alcool.
Il boss Sirena ha investito molto sul fantino e cerca di riportarlo sulla retta via e soprattutto su un cavallo. Finalmente arriva per Manfredi l’occasione per riscattarsi, ma la pressione lo fa cedere ai suoi vizi e mentre primeggia in una gara ha un incidente mortale. I giornali gli dedicano articoli di commiato e le persone vicino a lui sono in lutto. Da qui il film di Ortega prende una piega inaspettata e magica. Manfredini esce dall’ospedale dove (forse) è in coma, però è diventato una donna.
Questa è la prima svolta narrativa e la “nuova storia” condiziona anche lo stile di regia: il racconto asciutto e privo di fronzoli della caduta rovinosa di una star dello sport muta in una messa inscena più calda e morbida che racconta una transizione di genere.
A questo mutamento del film e di Manfredini ne seguirà un altro ancora e il fantino (e tutto El Jokey) nella ricerca dell’identità subirà nuove metamorfosi.
El Jokey (titolo inglese: Kill the Jokey) di Luis Ortega cattura l’occhio fin dalle prime inquadrature, ci si rende conto presto di stare ad assistere a qualcosa di speciale, di magico: l’incanto di un attimo in cui le cose sembrano stiano per dirci il loro segreto.
Questo non avviene e l’imprevedibilità della storia rimanda tale scoperta fino all’ultima inquadratura. Lo spettatore del film di Luis Ortega, come il lettore del suo connazionale Jorge Luis Borges, è spesso disorientato, ma comunque affascinato da situazioni che sfociano nell’assurdo e aggiungo solo un piccolo pezzo alla soluzione dell’enigma, ma poco importa perchè assistere alle metamorfosi del protagonista è una delizia per gli occhi e uno stimolo mentale.
Ortega tiene in alta considerazione lo spettatore e lo sfida a capire il finale fotogramma dopo fotogramma, in questa “gara ippica” il regista dimostra una ottima maturità registica (secondo film) che tiene ben salde le redini di una folle narrazione e non trasforma tutto in rodeo.