Quando si pensa a un concorso come quello veneziano, solitamente ci si aspetta dei lungometraggi “maestosi”, che a loro modo facciano la differenza, che puntino a dar vita a qualcosa di nuovo, a sorprenderci, a toccarci nel profondo, a lasciarci a bocca aperta. O, almeno, a fare semplicemente Cinema.
Ecco, per quanto riguarda esclusivamente quest’ultimo criterio, non sempre, purtroppo, vengono presentati al Lido film del genere. Eppure, quando ciò accade, non possiamo che uscire dalla sala deliziati, con gli occhi ancora pieni di immagini che non dimenticheremo tanto facilmente. Questo, dunque, è stato il caso di The Brutalist, terzo lungometraggio del giovane attore e regista statunitense Brady Corbet, presentato in corsa per il Leone d’Oro all’81° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.
Fin da quando nel (non troppo) lontano 2015 Corbet aveva presentato al Lido la sua opera prima, L’Infanzia di un Capo, premiata per la Miglior Regia nella sezione Orizzonti e con il Leone del Futuro – Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis”, pubblico e critica erano rimasti piacevolmente sorpresi da questo talento estremamente consapevole e sicuro di sé, malgrado la scarsa esperienza dietro la macchina da presa. La folle corsa del treno (in apertura del lungometraggio), resa al massimo da una carrellata al cardiopalma è, a quanto pare, qualcosa che è piaciuto e continua a piacere parecchio al nostro regista. Al punto da averla inserita diverse volte anche in questo suo imponente The Brutalist.
Ma vediamo nello specifico di cosa stiamo parlando.
La storia messa in scena potrebbe essere quella di un uomo qualunque, il quale, al termine della Seconda Guerra Mondiale, scappando da un’Europa praticamente in ginocchio, tenta di iniziare una nuova vita nei gloriosi Stati Uniti, raggiungendo, magari, un parente che si è trasferito lì già da tempo. Bene, nel caso di The Brutalist, però, l’uomo in questione è il celebre architetto ungherese László Tóth (impersonato per l’occasione da un ottimo Adrien Brody), il quale, andando a lavorare dapprima nel mobilificio di suo cugino, dà immediatamente prova del suo talento, attirando l’attenzione dell’ambiguo e potentissimo Harrison Lee Van Buren (Guy Pierce), il quale lo chiamerà a lavorare per lui, rendendolo finalmente celebre anche negli Stati Uniti e permettendogli di vivere una vita dignitosa insieme a sua moglie (Felicity Jones) e a sua nipote, nel frattempo giunte anch’esse dall’Ungheria. Ma quanto potrà durare questo precario “idillio”? e, soprattutto, quanto faranno pesare al nostro protagonista la sua condizione di immigrato?
The Brutalist, dunque, è un’opera maestosa, che si manifesta come tale già dai primi fotogrammi, quando ci viene presentata un’ouverture, seguita da una ben precisa suddivisione in capitoli e da un epilogo (con tanto – ahimé! – di intervallo a metà del lungometraggio). La storia del protagonista ci scorre davanti anno dopo anno in circa trent’anni di carriera, con tanto di drammi personali e scontri di ogni genere. Una durata importante (di circa tre ore e mezza), però, scende giù come una sorsata d’acqua fresca, grazie a una struttura narrativa ben equilibrata e a immagini in pellicola che, oltre dalle suddette carrellate, vengono ulteriormente valorizzate da curate composizioni del quadro, da un frequente uso di camera a spalla e da primi e primissimi piani sui volti dei protagonisti atti a sottolineare la drammaticità di determinati momenti.
Il ritratto di una leggenda dell’architettura, dunque, assume sul grande schermo l’aspetto di un biopic che, pur mantenendo una certa classicità, si rivela un prodotto estremamente raffinato e con una propria, ben marcata personalità. Le forme geometriche degli edifici progettati da Tóth, con tutto il loro significato intrinseco, poi, fanno il resto.
Brady Corbet, dunque, ancora una volta ci ha piacevolmente sorpreso. E a considerare questi primi giorni della Mostra, potremmo affermare tranquillamente che questo suo The Brutalist è fino a ora uno dei lungometraggi più “papabili” per i premi imminenti.