The Hurt Locker di Kathryn Bigelow è un’analisi spietata e complessa sulla guerra come fenomeno psicologico.

La seconda guerra del Golfo, ben più di quella in Afghanistan, si è rivelata un errore strategico a dir poco clamoroso per gli Stati Uniti. Cominciata in spregio ad un’opinione pubblica ben poco convinta (e a ragione) delle prove inerenti la armi di distruzione di massa in Iraq, fu dichiarata vinta dopo poche settimane dal Presidente Bush. Tuttavia, nel giro di pochissimo tempo, la realtà di una guerriglia brutale ed un caos senza via d’uscita ripropose ai soldati americani lo stesso scenario da incubo che i loro padri o nonni avevano conosciuto in Vietnam.
Il cinema ha cercato di raccontare quell’inferno nell’ex “regno” di Saddam Hussein in molti modi diversi, tramite biopic o storie connesse ad aventi realmente accaduti. Ma nessuno film ancora oggi può essere paragonato per potenza visiva e verità insita nel messaggio, a The Hurt Locker, diretto da Kathryn Bigelow. 

The Hurt Locker di Kathryn Bigelow: trama

Un team di artificieri di stanza in Iraq è chiamato a misurarsi non solo con ordigni esplosivi, ma anche contro tutte i possibili agguati a mano armata da parte degli insorti, dalle autobombe e da tutto il tanto complesso quanto talvolta rudimentale arsenale utilizzato contro le forze americane.
Il Primo Sergente William James (Jeremy Renner), chiamato a sostituire il Sergente Thompson (Guy Pearce), ucciso durante un’operazione di bonifica da un ordigno artigianale, è appena arrivato per prendere il comando della squadra composta dal Sergente Sanborn (Anthony Mackie) e lo specialista Geraghty (Eldrige). Al contrario del suo predecessore, James fa sempre di testa sua, agisce andando oltre le regole, improvvisa, si spinge costantemente al limite e pare quasi che non gli importi né di vivere o di morire, né di nessun altro.
L’unica eccezione è un ragazzino soprannominato Beckham che cerca di vendere ai soldati americani qualche dvd, fuori base militare vicino Bagdad.
Tra attentati, trappole esplosive, scontri a fuoco e caos, The Hurt Locker mette in scena più che la Guerra in Iraq, la Guerra dentro l’anima dei soldati e i diversi modi con cui ognuno reagisce allo scontro bellico.

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The Hurt Locker di Kathryn Bigelow: film sulla guerra o film di guerra?

The Hurt Locker ancora oggi viene sovente criticato da tanti veterani per diversi errori connessi a procedure operative, uniformi, metodologie belliche e anche tecniche di sminamento o bonifica. Tuttavia, la maniacale attenzione della Bigelow per la psicologia degli uomini in guerra lo rende un film molto realistico dove
l’evoluzione dei personaggi va oltre la storia effettiva e dimostra come le ferite che i proiettili e le schegge fanno nella carne sono meno pericolose di quelle che aprono nell’anima dei soldati.

Diretto in modo a dir poco sontuoso, con una capacità unica di regalare tensione e incertezza a livelli quasi insostenibili, The Hurt Locker gioca costantemente con la contrapposizione tra il protagonista e i suoi demoni oltre che con i suoi commilitoni.
La Bigelow costruisce è una sorta di illusione, una bugia in cui cadiamo nel momento in cui il protagonista appare come di ghiaccio, indifferente ad ogni cosa fino a godere della violenza. In realtà Jeremy Renner/Williams è ossessionato dall’azione e drogato di adrenalina, un uomo che senza la guerra non sa stare e neanche vivere.

Nel finale emerge tutta la verità concepita dalla Bigelow: Williams è l’unico che capisce che per uscire vivo da quell’inferno, deve dare per scontato di essere già morto, deve abbracciare quella guerra, deve farsene compenetrare completamente. Se non altro lo vuole, sceglie di farsi avanti, accetta di non relegarla ad un semplice momento della sua vita, ed in ultima analisi, mostra di essere infinitamente meno egoista dei suoi due compagni.
Williams rischia la vita per i civili, si prende rischi enormi non per fare il gradasso o l’eroe, ma per salvare vite, ha un atteggiamento molto più comprensivo e dialogante degli altri soldati con gli iracheni, di cui comprende la tragedia e la sofferenza. Tuttavia rimane un soldato, sa che non può fidarsi di nessuno, che deve cercare di rimanere freddo e lucido per  tornare a casa.
Geraghty e Sanborn invece pensano solo a se stessi, in un certo senso è come se non fossero lì, si limitano ad eseguire gli ordini senza capire che su quel fronte gli ordini e le procedure concepite da uno scriba a West Point o da qualche ufficiale in una tenda con l’aria condizionata, valgono poco o niente.
Alla fine a crollare sono proprio loro, incapaci di immergersi completamente nella guerra per poi uscirne, concentrati troppo sul futuro fatto di bambini e focolare domestico e per niente connessi alla realtà intorno a a loro dove le persone saltano in aria ed oscuri nemici tendono agguati dietro ogni angolo.

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La guerra di Kathryn Bigelow è un regno del libero arbitrio viziato dalla casualità. Premere il grilletto, togliere quel cavo prima di un altro, andare a destra o sinistra, sono scelte di ogni soldato dall’alba dei tempi, ma questi uomini vivono nella costante incertezza di non tornare a casa e possono solo eseguire gli ordini perdendo quella solo apparente scelta che hanno davanti.
Nel mostrarci questa terrificante realtà, la Bigelow ci parla dei soldati di tutte le epoche, di come imbracciare un fucile ti cambi e di come non basta tornare a casa per sentirsi a casa, perché in fin dei conti stare in guerra per molti soldati equivale alla vita stessa.
Molti individui in guerra hanno scoperto di voler rischiare la vita per trovarvi un senso: sono vittime di una grande illusione, hanno perso l’empatia verso se stessi e non rimane loro che guardare in faccia la morte da troppo vicino.