Pelikanblut, (Pelican blood) secondo film dell’emergente regista tedesca Katrin Gebbe, apre la sezione Orizzonti della settantaseiesima edizione del festival di Venezia e come La Veritèe di Kore-Eda, film di apertura della sezione delle opere in concorso, è incentrato sui rapporti famigliari.
Pelikanblut: trama del film
Wiebke (Nina Hoss) è una giovane madre single che addestra cavalli per la polizia tedesca nella sua idilliaca tenuta. Ha un rapporto straordinario con la figlia Nicolina, adottata in un orfanotrofio dell’Est Europa, a cui decide di dare una sorella. Così a Wiebke e Nicolina si aggiunge, sempre grazie all’adozione, la dolcissima Raya.
La Bambina sembra essere felice nella nuova casa, ma presto inizia a manifestare una sinistra inquietudine: picchia la sorella, uccide piccoli animali e li nasconde in casa, sodomizza con un bastone un altro bambino e tenta di bruciare la sua stanza. Wiebke cerca in ogni modo e disperatamente di capire cosa ha la bimba e si affida ad uno psichiatra infantile, ma la diagnosi del medico non le basta e quindi come ultima carta cede alle superstizioni e ad i riti ancestrali di magia nera.
Pelikanblut: recensione
La trama di Pelikanblut fa pensare ad un horror in piena regola, ma il film della Gebbe si muove in direzioni sociali ed intimiste, provando a raffigurare un rapporto madre/figlia difficile e condizionato da molti fattori. Solo nel finale, la giovane regista tedesca decide abbandonarsi totalmente alle suggestioni e alle tinte inquietanti del genere della paura.
L’opzione di scrivere e dirigere un film totalmente di genere avrebbe sicuramente giovato a Pelikanblut e forse offerto alla Gebbe un terreno più fertile per analizzare i rapporti famigliari e soprattutto amalgamato la narrazione che ha la parte finale quasi totalmente slegata dal resto.
Katrin Gebbe invece decide costruire la storia attorno alla figura della super-mamma che da sola affronta la vita e forse, proprio perchè sola, cade in un vortice di inquietudine ed ossessività verso la figlioletta e la sua malattia.
Nel finale vengono introdotte le componenti esoteriche-maternali e diverse allusioni horror, ma ormai, a causa di alcune sequenze tipiche delle fiction tedesche (manca solo lo scintillio sui denti dei protagonisti) e di alcune catastrofiche dissolvenze incrociate, assenti nel cinema da almeno cinquant’anni, la tensione e il turbamento non si possono più costruire efficacemente.
Pelikanblut è un’opera che doveva provare ad intraprendere il sentiero dell’horror che fu (infatti sembra una storia perfetta per Lucio Fulci), ma il voler insistere su altre componenti ne fanno un ibrido poco incisivo e che non coinvolge né i fan dell’horror né gli appassionati di tematiche famigliari.