Per fortuna c’è Venezia, per fortuna c’è il cinema orientale che ci solleva ed eleva verso qualcosa di più alto, anche spiritualmente. Per fortuna c’è Pema Tseden, un regista tibetano di cui si vorrebbero recuperare tutti i film dopo averne visto anche solo uno, magari per caso, magari a Venezia…
Lo scorso anno Pema Tseden aveva portato in laguna un film enorme, Jinpa, che parlava di illuminazione e di risveglio pur mostrando soltanto il breve viaggio di un camionista per le lande desolate del Tibet. La 76° edizione del Festival del Cinema di Venezia ci regala Balloon (QiQui), il settimo film di questo straordinario autore dell’estremo oriente che s’interroga sulla relazione tra realtà e anima. La riflessione parte dalla semplicità e dalla leggerezza, da un palloncino…
La trama di Balloon è incentrata sulla quotidianità di una famiglia delle praterie del Tibet: il padre, la madre, il nonno saggio e i due figli piccoli allevano pecore e tutta la loro esistenza sembra essere assorbita e rappresentata dalla pastorizia. C’è anche un altro figlio, leggermente più grande e in età scolare. Il film però ci informa già nei titoli di testa che il governo cinese pratica un severo controllo sulle nascite sin dagli anni ’80. E dopo il cartello iniziale il regista mostra subito i due figli più piccoli che corrono sul prato giocando con due “palloncini”, ovvero due preservativi rubati ai genitori che causeranno motivo di forte imbarazzo per tutti i membri della famiglia.
Le principali svolte narrative di Ballon sono il perno di quella riflessione a cui si accennava prima: da un lato l’oggettività, la consapevolezza e il rispetto per la legge dello Stato; dall’altro la tradizione, la legge cosmica, la morte, l’anima e il dharma. Tematiche difficili da assorbire dal punto di vista occidentale, ma sviluppate con la morbidezza tipica di Pema Tseden che articola tutto il film tra realismo rurale, le scelte esistenziali e l’istinto alla sopravvivenza.
Balloon fa riflettere anche in termini di critica, portando lo spettatore a capire l’importanza di quel tocco zen che è tipico dei grandi autori orientali del cinema non di genere. Il realismo pastorale e folkloristico si riflette nella sincerità sentimentale dei protagonisti e nella magistrale interpretazione degli attori, ripresi in primi piani che non sono semplici primi piani e in inquadrature profondamente diverse dall’estetica dei film occidentali. La regia è sempre discreta nel dipinge questo ritratto famigliare sentimentalmente sfaccettato, racchiudendo i tabù e gli imbarazzi portati dal vento di modernità in immagini simboliche.
Le sequenze sono sempre delicatissime e soavi e se Jinpa era un film profondamente meditativo, Balloon è invece altamente contemplativo.
Un film bellissimo, grandissimo. Un film in cui l’istinto e la ragione fanno i conti con l’anima, con qualcosa di sottile che trascende il furore della vita quotidiana. Il finale è aperto, elevato e poetico e ci lascia con una metafora silenziosa che in realtà è un tumulto interiore.