Del maiale non si butta via niente, recita il detto, nemmeno il sangue. Ma ne La Guerra del Maiale non ci sono porci a testa in giù da squartare e le uniche gocce di liquido rosso mostrate sono quelle di una trasfusione dai toni “vampireschi”, perché nell’opera prima di David Maria Putortì la violenza è sempre contemplata con morboso distacco e mai esibita.

Isidoro (Victor Laplace) vive a Buenos Aires nell’appartamento del figlio Thomas (Michel Noher), un giovane avvocato che condivide l’odio per gli anziani promosso dalla campagna elettorale. La lotta contro il “porco” si diffonde a macchia d’olio in tutta l’Argentina, dando vita a uno scontro generazionale che investe con ferocia anche alcuni dei compagni di Isidoro.
“Dicono che i vecchi sono egoisti, materialisti, voraci, rognosi. Dei veri maiali”. Il leitmotiv del romanzo di Adolfo Bioy Casares, Diario della Guerra del Maiale, rappresenta il nucleo centrale de La Guerra del Maiale. Superati i cinquant’anni d’età ci si trasforma in parassiti, di cui il “vitale” sistema sociale deve liberarsi. È necessario puntare all’annientamento di chi ormai non ha più nulla da offrire per riordinare il mondo, anche a costo di spietate propagande social.

La pellicola di Putortì pretende di essere a proprio agio navigando tra vari generi e stili, in primis la tragedia grottesca e il thriller surreale, ma finisce per schiantarsi contro l’iceberg della retorica. Sorretta da un registro datato nel tempo e divisa in compartimenti stagni, la sceneggiatura a sei mani alterna pedantemente realismo e metafore, brillando a malapena nei momenti in cui la componente “fantastica” padroneggia su tutte le altre.

Tra populismo imperante e ambigue persecuzioni, Laplace convince nei panni della vittima/spettatrice che cerca di dare un senso al ciclico caos dello scontro dei due mondi, rimanendo al contempo avvinghiato in una sorta di Edipo Re al rovescio, in cui è il padre a sviluppare desideri inconsci che lo guidano alla conquista di un trono della disgrazia. Incapace di trascendere il tessuto dei rapporti, La Guerra del Maiale preferisce omaggiare il cinema del passato e sfruttare Nanuk l’eschimese come ponte per il macchinoso finale, dando vita all’ennesima lezione di vita sull’inesorabilità del tempo.