Nell’imminente notte degli oscar, Netflix punta alla statuetta per il miglior film con Mank, la complessa pellicola di David Fincher.

Basato sulla sceneggiatura del giornalista Jack Fincher, padre del regista, Mank racconta, attraverso flashback annunciati, due momenti specifici della vita di Herman J. Mankiewicz, lo sceneggiatore del monumentale Citizen Kane (Quarto Potere).

Mank, che prende il titolo dal nomignolo con cui ad Hollywood era conosciuto il protagonista del film, è un insolito biopic su una verità soggettiva: quella del saggio Raising Kane (1971) della critica cinematografica del New Yorker, Pauline Kael.
Secondo la Keal, Orson Welles, regista, co-sceneggiatore ed attore in Quarto Potere, si prese troppi meriti sulla sceneggiatura del film, che invece era da attribuire interamente a Mankiewicz.

Nonostante la tesi sia stata smentita più volte, David Fincher ha deciso di raccontare, nella sua complessa, ma perfetta pellicola, proprio questa versione dei fatti.

Mank: trama del film di David Fincher

Esattamente come Quarto Potere, Mank è costruito su un continuo gioco di flashback che, seppur complicando la narrazione, hanno il preciso scopo d’informare il pubblico sulla realtà dietro la sceneggiatura. Splendida la chicca dei cambi di scena, che ricalcano sullo schermo l’intestazione di una vera e propria sceneggiatura.

Dal presente (gli anni ’40) con Mank – interpretato magistralmente da Gary Oldman – incaricato dal 24enne Orson Welles di scrivere Citizen Kane, si salta agli anni ’30 di una Hollywood teatro di giochi di potere, ma anche al grande periodo d’oro della MGM di Louis B. Mayer, del magnate dell’editoria Hearst, del noto produttore Irving Thalberg, nonché delle pilotatissime elezioni per il governatore della California del ’34, con la stessa MGM che realizzò cortometraggi diffamatori contro il candidato socialista Upton Sinclair.

L’azione prende il via nel 1940, con la firma del contratto tra la RKO ed il giovanissimo Welles, che ottenne carta bianca su ogni aspetto della realizzazione del suo primo lungometraggio. L’enfant prodige, incaricò Mankiewicz di occuparsi della stesura della sceneggiatura, con soli due mesi a disposizione.

Il Mank degli anni ’40 è però squattrinato, schiavo dell’alcol ed immobilizzato a letto, in seguito ad un incidente stradale. Scrive da un ranch a Victorville, in California, dettando il suo lavoro all’assistente dattilografa Rita Alexander, interpretata da Lily Collins.
I due diversi piani temporali s’intrecciano, mostrandoci un prima ed un dopo, un vero che diventerà filmico grazie a Mank.
Kane, il protagonista della pellicola di Welles è infatti, neanche troppo velatamente, ispirato al vero William Randolph Hearst, al suo potere, alla ricchezza, alla sua Marion Davies con il volto della splendida Amanda Seyfried, ed al suo muovere i fili dell’informazione, da quell’enorme castello, che nell’immaginario di tutti divenne Xanadu. Fincher, quindi, guida lo spettatore tra i due momenti della narrazione, tentando di mettere ordine in un complesso gioco di vero e romanzato.

Una pellicola complessa

Mank è, senza dubbio, una pellicola per i grandi appassionati di cinema.
Con i suoi continui rimandi agli anni d’oro di Hollywood, Fincher confeziona una prodotto per veri intenditori. La ricerca della perfezione e del sapore dell’epoca la troviamo a partire dal colore, un bianco e nero ricercato che quasi ci riporta indietro al 1940; e ancora il sonoro, sporcato per somigliare ai film dell’epoca e le famose “bruciature di sigaretta” sulla pellicola.

Non pochi poi, i raccordi con Quarto Potere, con le inquadrature dal basso, che ben ricordano quell’immagine megalomane del cittadino Kane; la sequenza di Welles che distrugge la cassa di alcolici di Mankiewicz, ispirata sempre alla pellicola del ’41 e ancora la bottiglia che scivola dalle mani di Mank, come la sfera di cristallo di Kane. Un gioco di sottili citazioni che legano i due splendidi lungometraggi, seppur a distanza di moltissimi anni.

Mank è anche politica, potere, grande cinema e ode al lavoro sottovalutato dello sceneggiatore. Se infatti il regista, sposando la tesi della Kael e del padre, riabilita la poco ricordata figura di Herman J. Mankiewicz, abilissimo sceneggiatore seppur schiavo dei più odiosi vizi, a perdere di credibilità è, non tanto la Hollywood del passato, il cui potere era ben noto, ma proprio Orson Welles.
Sì, perché Welles, dal racconto di Fincher, risulta un viziato, presuntuoso e capriccioso giovanotto che, a scapito del ben più adulto Mank, pretese diritti che non gli spettavano affatto.

È infatti Mank il “buono” della storia, la coscienza tra i corrotti, unico sostenitore di Sinclair, in cui probabilmente si rispecchia, grillo parlante in quel clima di potere, che prova a contrastare, finendone estromesso.

Mank è un enorme racconto di due ore su un periodo preciso della vecchia Hollywood, una vicenda specifica sfruttata come pretesto per narrare un quadro più ampio. Un gioco di contrasti malcelati e verità distorte. La gamba ingessata che costringe Mank all’immobilità sin dall’inizio del film, ci ricorda sicuramente quella di James Stewart ne La finestra sul cortile, ma, più che altro, ben inquadra l’impossibilità di muoversi e di contrastare il potere mediatico di Hearst, magnate della carta stampata e del cinema, se non con un film che, proprio quei grandi potenti tentarono di ostacolare a tutti i costi.

Storia o leggenda, Mank di David Fincher è sicuramente una validissima versione della storia.