Prendete un adolescente di buona famiglia confinato in un collegio per rampolli dell’alta società sperduto fra i monti; fatelo confrontare con un ambiente rigido e severo che imbavaglia internet e cellulari e asseconda metodi repressivi da giustizia sommaria. Mandatelo, poi, nel fitto di un bosco di notte a frequentare una casa di piacere per sfuggire alla noia e alla solitudine: lo vedrete innamorarsi, tradire amicizie, tentare la fuga al di là del bosco e scoprire che oltre quel confine, nel fatidico passaggio dall’infanzia all’età adulta, non c’è libertà senza costrizione, innocenza senza peccato.
Non proprio ogni favola sa fornire indicazioni per superare le crisi esistenziali e dare un senso alla vita. Nel repertorio fantastico dei Grimm come nelle opere di Wagner, capita che i protagonisti rimangano irretiti in ingranaggi più grandi di loro e che i rituali di iniziazione si trasformino in vicende spaventevoli da cui l’anima risulta irrimediabilmente compromessa. Sono le fiabe nere, le fiabe di de-formazione, quelle in cui l’eroe è trascinato negli abissi dell’incubo senza possibilità di redenzione. Con l’opera prima, I figli della notte, il 35enne Andrea De Sica (figlio del compositore Manuel e nipote di Vittorio) si inscrive in questo filone in maniera ambiziosa, scivolando talvolta nell’horror senza troppa convinzione, ma affrontando una storia borderline in controtendenza rispetto alle consuetudini più diffuse del cinema italiano contemporaneo.
La situazione estrema di un riformatorio che alleva i dirigenti che verranno in un eremo lontano dalla civiltà (ricavato nell’asburgico Grand Hotel Dobbiaco in Alto Adige dove soggiornò anche Mahler) è sinonimo di quell’età indefinita, l’adolescenza, in cui si è così concentrati su se stessi, così impregnati di narcisismo, che le vicende del mondo assumono contorni sfumati. Certo, gli equilibri che regolano questo microcosmo autogestito si reggono su strumenti di controllo e oppressione che investono la metafora di significati più universali: il sistema-collegio è la cartina al tornasole di una società insensibile che stritola le nuove generazioni, se ne serve come cavie e le restituisce abbrutite dalla crudeltà e dalla selezione forzata. Persino la trasgressione, che prende forma nella concretezza carnale di un improbabile bordello coi rossi cuori al neon accesi nella notte, è consentita fin tanto che impedisce tentativi di evasione più pericolosi (sulle “passeggiate” notturne degli allievi vigila sempre l’oscuro educatore Mathias, interpretato dall’imperturbabile Fabrizio Rongione).
Fra pasti con gli insegnanti, episodi di nonnismo, lezioni di economia e allenamenti di hockey, s’inscrive però la personale discesa agli inferi del 17enne Giulio (Vincenzo Crea), il puro di cuore e novello Parsifal che, con la complicità di un amico un po’ sopra le righe (Ludovico Succio), scopre il giardino delle delizie che dimora fra le nevi e si lascia sedurre dalla fanciulla-fiore di turno, la giovane prostituta Elena (Yuliia Sobol). La scoperta dell’amore, rituale di passaggio dell’eroe che s’incammina verso la maturità, appaga il vuoto affettivo di una madre – vedova e donna in carriera – che non ha tempo per occuparsi del figlio, ma lo guasta nel profondo, compromettendo la solidità di un vincolo anche più totalizzante, come quello dell’amicizia fra adolescenti. Ne esce così un film singolarmente amaro, che anziché compatire la condizione di abbandono di giovani facoltosi ma senza padri li spinge fino alle estreme conseguenze lasciando indietro chi è troppo fragile per trasformarsi in carnefice.
De Sica – che firma la sceneggiatura insieme a Mariano Di Nardo e Gloria Malatesta – si dimostra a suo agio più nell’evocazione di atmosfere rarefatte che nella costruzione narrativa d’insieme. Spesso non si sottrae nemmeno alla tentazione del facile citazionismo (dagli inquietanti interni dell’Overlook Hotel di Shining allo Steve McQueen che gioca con la pallina in La grande fuga). Ma nella direzione degli attori, nell’indugio sull’inquadratura fissa e sui lenti movimenti di macchina, nella ricerca di una variegata selezione di musiche a sostegno delle immagini (dai brani di repertorio come Ti sento dei Matia Bazar a quelli al sintetizzatore composti dallo stesso regista), rivela una buona padronanza dei propri mezzi e doti spiccate da poeta del frammento che tradiscono chiaramente l’eredità paterna. Si stempera così, sulle note della gioiosa e littoria canzonetta Vivere (nella versione di Luciano Pavarotti), una delle scene più liete de I figli della notte. E il pensiero non può che tornare a quell’ultimo Giardino dei Finzi Contini, altra favola triste, di strazio sognato, con cui nonno Vittorio si congedò dal cinema.