Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Settembre 2016. A fare capolino sui grandi schermi delle sale lidensi, un nome che già qualcuno ha avuto modo di notare (e apprezzare) soltanto pochi anni addietro: Ana Lily Amirpour. Già, perché, di fatto, la giovane regista iraniana di origini ma statunitense di adozione, dopo aver dato una notevole prova di talento con la sua opera prima A Girl walks home alone at Night, è pronta a rimettersi in gioco con la sa nuova fatica – The Bad Batch – proprio in uno dei festival cinematografici più prestigiosi di tutto il mondo (dove in seguito si aggiudicherà il Premio Speciale della Giuria).

Questa volta, tuttavia, (non proprio letteralmente) la musica cambia.
Questa volta non vi sono più eroine con tratti vampireschi che si aggirano di notte per la città a fare giustizia.
Questa volta niente bianco e nero ad accompagnarci per le strade solitarie di una città in notturna. Questa volta, l’eroina è una donna che non ci aspettiamo.
Una donna forte, combattente, incredibilmente resiliente e libera. E il volto di Suki Waterhouse ce la presenta immediatamente nel momento in cui la stessa viene relegata dalle autorità in una sorta di non-luogo, in un luogo che – proprio come sta a indicare un cartello – non fa parte degli Stati Uniti d’America e in cui vengono portati tutti coloro che la società “rifiuta”, siano essi delinquenti, tossicodipendenti o addirittura cannibali.

La storia qui messa in scena, dunque, è quella della giovane Arlen (Waterhouse), che appena arrivata in questa sorta di “lotto difettoso” (“The Bad Batch”, proprio come il titolo sta a indicare) viene immediatamente catturata da alcuni cannibali che, successivamente, le amputano un braccio e una gamba.
Dopo essersi riuscita miracolosamente a salvare, la donna verrà condotta da un Eremita (un irriconoscibile Jim Carrey) in una zona del lotto in cui può ricevere le cure necessarie. E così, dopo pochi mesi, la donna potrà finalmente “rimettersi in gioco” e trovare una sorta di equilibrio in questo nuovo mondo, grazie anche alla compagnia di una bambina (figlia di una donna cannibale precedentemente uccisa). Tutto sembra andare per il meglio, finché il padre della piccola (impersonato da Jason Momoa) non inizierà a cercare sua figlia a tutti i costi, incredibilmente assetato di vendetta.

The Bad Batch, dunque, è come un giro sulle montagne russe (reso ancor più adrenalinico da un’ottima selezione musicale, come di consueto nelle opere della Amirpour). Un film in cui colori spesso psichedelici, un’ambientazione post-apocalittica che tanto ci fa pensare al glorioso Mad Max – Fury Road (2015), rave inaspettati e inseguimenti al cardiopalma fanno da protagonisti assoluti.

Eppure, malgrado le numerose potenzialità del film, malgrado trovate iniziali del tutto innovative, questa opera seconda della Amirpour (probabilmente penalizzata dal grande successo del suo primo lungometraggio) ha fatto storcere il naso a molti. E ciò dipende soprattutto da una sceneggiatura dai risvolti talvolta prevedibili, oltre che da un approccio registico che per molti versi si discosta da quanto è stato fatto nell’ottimo A Girl walks home alone at Night e che, nel suo somigliare quasi a un videoclip musicale, dà l’impressione di cercare a tutti i costi immagini d’effetto risultando, tuttavia, eccessivamente “costruito” e decisamente manierista. Fatte, ovviamente, le dovute eccezioni, a seconda della scena via via realizzata.

Un film “difettoso”? Decisamente no.
Piuttosto, potremmo considerare il presente lungometraggio come una sorta di “film di passaggio”, in cui dopo un esordio folgorante, si procede a passi ancora incerti, al fine di capire dove questo meraviglioso viaggio che è il cinema voglia finalmente condurci.