Una bella sorpresa è arrivata nelle sale italiane (e non solo) nel (non troppo) lontano 2014. Una bella sorpresa e un nuovo nome da tenere d’occhio all’interno del panorama cinematografico contemporaneo. Stiamo parlando della giovane cineasta statunitense di origini iraniane Ana Lily Amirpour, che con il suo lungometraggio indipendente A Girl walks home alone at Night ha immediatamente conquistato pubblico e critica, rivelando uno straordinario talento e un grande, grandissimo amore per la settima arte e per la musica.

Già. Perché, di fatto, musica e cinema (del passato) si incontrano in A Girl walks home alone at Night per dar vita a qualcosa di unico e straordinario. Un piccolo ma prezioso lungometraggio che fin dai primi fotogrammi si è rivelato una vera e propria dichiarazione d’amore all’arte in tutte le sue forme. Ma andiamo per gradi.

Ci troviamo nella cittadina iraniana di Bad City. Una misteriosa ragazza si aggira per le strade di notte apparentemente senza meta. Apparentemente. Già, perché, di fatto, la donna ha uno scopo ben preciso: aggirarsi nei bassifondi della città al fine di “fare giustizia”, di punire chi, in un modo o nell’altro, ha commesso qualcosa di sbagliato, di chi da anni è coinvolto in prima persona con traffici di droga, di chi pratica violenza sulle donne. Ben presto, tuttavia, scopriamo che la ragazza in questione è una vampira. Ed ecco che l’intero lungometraggio assume immediatamente una connotazione del tutto particolare.

Come la regista stessa lo ha definito, A Girl walks home alone at Night è uno spaghetti western dai toni vampireschi. Vampiresco, ovviamente, data la singolare natura della protagonista. Spaghetti western perché, dati i lunghi silenzi e un approccio registico che per molti versi ci è famigliare, non possiamo non notare il sentito omaggio che Ana Lily Amirpour ha voluto fare al nostro Sergio Leone.
Eppure, nonostante le numerose citazioni e gli infiniti rimandi al cinema del passato, A Girl walks home alone at Night una propria, marcata personalità ce l’ha eccome. E lo notiamo subito, non appena hanno inizio i titoli di testa.

Un curato, ben contrastato bianco e nero fa da perfetto coprotagonista. Ad accompagnarlo durante tutta la visione, un commento musicale ricercatissimo e studiato fin nel minimo dettaglio, che altro non fa che conferire al tutto un gradito tocco indie-rock-underground, perfettamente in linea con ciò che viene raccontato per immagini.

Ana Lily Amirpour sa benissimo dove vuole andare a parare e cosa vuole comunicarci. E lo fa in modo mai banale o scontato, ma, al contrario, del tutto coraggioso e innovativo. Innovativo ed estremamente personale (impossibile non pensare, ad esempio, alle stesse origini iraniane della regista, o anche alla più che mai attuale questione riguardante la violenza sulle donne, che tornerà in maniera forse ancor più pregnante in The Bad Batch, la sua seconda pellicola, realizzata nel 2016). In poche parole, uno sguardo maturo e consapevole. Lo sguardo di chi di film ne ha davvero visti tanti, ma che, al contempo, è riuscito a evitare di creare delle “copie carbone” di lungometraggi già realizzati in passato (cosa che, purtroppo, capita spesso quando ci si vuole mettere in gioco per la prima volta dietro alla macchina da presa).

Ana Lily Amirpour due anni più tardi avrebbe dato vita a un nuovo lungometraggio. Ne dovranno passare altri cinque, invece, per poter visionare una terza pellicola, ancora una volta alla Mostra del Cinema di Venezia. Ma per sapere quali strade ha preso il suo modo di fare cinema, dovremo aspettare ancora qualche giorno.