C’è qualcosa nei ricordi d’infanzia che è intrinsecamente dolce, ricolmo di speranza, proprio come il mondo ci appare prima di conoscere la perdita e la delusione. Belfast, il dramma autobiografico di Kenneth Branagh, ha in sé quell’innocente ottimismo dell’età fanciullesca, facendo riferimento a fatti accaduti quando il regista aveva solo nove anni.

Si parla degli irlandesi destinati a partire in cerca di una vita migliore, rendendo omaggio sia a chi ha lasciato con coraggio la propria casa, sia a chi è rimasto speranzoso nella sua terra.
Tema cardine è il conflitto, in ogni sua sfumatura: religioso, politico, amoroso e familiare. Ed è proprio dalle ceneri del conflitto nord-irlandese, dalle case sotto attacco, dall’odio che pervade le strade, che cresce sempre più la voglia di rinascere.

Presentato alla Festa del Cinema di Roma, Belfast arriva nelle nostre sale il 12 novembre distribuito dalla Universal Pictures.

Ambientato nel 1969, il film si svolge in un quartiere operaio di Belfast, capitale dell’Irlanda del Nord.
Il clima all’inizio è disteso: la gente balla per strada, i bambini corrono senza supervisione, tutti sono amici di tutti. I tempi tuttavia stanno cambiando, la tensione tra cattolici e protestanti va aumentando giorno dopo giorno, l’economia è in ricaduta, irrequietezza e frustrazione riempiono l’aria.
In questo contesto, seguiamo i passi di Buddy (Jude Hill), di 9 anni. Quando Buddy non è impegnato a fantasticare una storia amorosa con la sua compagna di classe Catherine, trascorre le sue giornate con suo padre (Jamie Dornan), sua madre (Caitriona Balfe), suo nonno (Ciarán Hinds) e sua nonna (Judi Dench), intento ad osservare ogni strana vicenda tipica del mondo degli adulti.
Perché la gente vandalizza le case dei vicini solo perché frequentano un’altra chiesa? Perché mamma è triste ogni volta che il postino consegna una lettera? Perché papà dice che dovrebbero trasferirci dall’altra parte della Terra per ricominciare? Dovrà dire addio a Belfast, l’unico posto che abbia mai conosciuto?

La sceneggiatura di Branagh è piena di piccoli aneddoti graziosi, tipici degli occhi che guardano al passato con nostalgia, ma soprattutto con il sorriso sulle labbra. Gli scambi con i suoi nonni impertinenti e sfacciati, in quest’ottica, sono parentesi esilaranti nonché dimostrazione di una scrittura eccellente.

L’umorismo non è sofisticato, non è chissà quanto artificioso, ma funziona proprio per la sua semplicità che gli garantisce autorevolezza e credibilità. Sebbene spesso divertente, la sceneggiatura di Belfast eccelle solo a livello aneddotico. È una serie di momenti ben scritti che non necessariamente si sommano per raccontare una grande storia.
S’inizia con una scena di rivolta che stabilisce il conflitto bollente tra i residenti locali di diverse fedi. Poi però il soggetto viene abbandonato per lunghi intervalli di tempo, facendo spazio a narrazioni più marginali. Temi come l’abbandono della terra natia o la conoscenza di sé non risultano molto integrati nella struttura narrativa generale, il che fa perdere un po’ di slancio al racconto.

Il comparto tecnico è da elogiare nella sua totalità al fronte di un lavoro magistrale. Immerso in un bianco e nero che ben si addice alle atmosfere proposte, la fotografia di Haris Zambarloukos sposa quella che è l’anima della storia, così malinconica ed accorata.
A ciò si aggiunge la regia da manuale di Branagh, che riempie ogni inquadratura di elementi in movimento, d’interazioni su più piani, portando lo spettatore a scavare in ogni angolo dello schermo. Quando Belfast funziona, è come una bella brezza nostalgica, un pizzico d’amore puro che va dritto al cuore. Le parole dei personaggi, soprattutto quelle pronunciate dalla Balfe, suonano come elogio alla vita, un omaggio a quelle strade che hanno saputo regalare tanto, nonostante le difficoltà.