Un regista che indubbiamente divide, Yorgos Lanthimos. Se, infatti, in molti hanno imparato ad apprezzarlo già nel momento in cui egli ha realizzato i suoi primi lungometraggi in Grecia, spesso il cineasta di Atene è stato accusato addirittura di essere eccessivamente autoreferenziale, iterativo e, sostanzialmente, con ben poco da dire. E così, la presenza, in corsa per il Leone d’Oro, all’80° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia di Poor Things, la sua ultima fatica, si è comunque rivelata, per molti, una piacevole sorpresa.
Sarà stata vera gloria? Presto detto.

La storia messa in scena è quella della giovane Bella Baxter (impersonata da Emma Stone), apparentemente affetta da un ritardo mentale, ma che, in realtà, è stata riportata in vita (dopo un tentativo di suicidio) dal medico Godwin “God” Baxter (Willem Dafoe), il quale – solito effettuare esperimenti su cadaveri, su animali e addirittura su esseri umani ancora in vita – al fine, appunto, di ridarle una nuova vita, le ha trapiantato il cervello del feto che ella portava in grembo.

Bella, dunque, vive in casa di God ed è promessa al giovane medico Max (Ramy Youssef), eppure, desiderosa di scoprire il mondo, partirà per un lungo viaggio, per un’insolita “avventura”, con lo scaltro e libertino avvocato Duncan Wedderburn (un esilarante Mark Ruffalo). Cosa la aspetterà, man mano che imparerà a conoscere ciò che si trova al di fuori delle pareti di casa sua?

Prima di prendere in esame il presente Poor Things, occorre fare una premessa. Se, infatti, ai tempi dei suoi esordi, Lanthimos si era distinto per la scelta di contesti tanto attuali quanto fortemente metaforici e al limite del paradossale, insieme a una messa in scena sì a suo modo coraggiosa, ma anche senza troppi fronzoli, nel momento in cui il regista si è spinto oltre i confini nazionali, il suo cinema ha preso un’altra piega, adattandosi, in parte, ai canoni del cinema d’Oltreoceano (o, più in generale, maggiormente mainstream), ma prediligendo, al contempo, un approccio registico ancora più estremo, per messe in scena fatte di grandangoli, di ambienti distorti e claustrofobici, atti ad accentuare le perversioni e i meccanismi malati all’interno della società (del passato e del presente).

In Poor Things, dunque, ritroviamo un po’ tutti questi elementi. Se, infatti, durante la prima parte del lungometraggio (in cui i grandangoli, insieme al bianco e nero, fanno quasi da protagonisti assoluti nel descriverci l’ambiente in cui vive la giovane protagonista) dati determinati elementi (“il mondo esterno troppo pericoloso”, “un eventuale matrimonio con Max sarebbe perfetto, a patto che restiate a vivere qui”) ripensiamo immediatamente al Lanthimos di Dogtooth (2009) o di The Lobster (2015), ecco che ben presto, nel momento in cui il discorso si focalizza nello specifico sul patriarcato, ci torna in mente La Favorita (2018).

Grottesco ed esilarante (in particolar modo per quanto riguarda la prima parte), complessivamente godibile e mai del tutto scontato, Poor Things – proprio alla luce di quanto precedentemente affermato – ci dà quasi l’impressione, tuttavia, di una sorta di collage che nulla toglie e nulla aggiunge a quanto detto o realizzato proprio dallo stesso Lanthimos negli anni scorsi, il quale, al contempo, ha qui fatto tesoro di grandi classici del passato (da Il Gabinetto del Dottor Caligari al cinema di Tod Browning) coniugando questi ultimi in maniera sì pertinente e visivamente accattivante, ma finendo – a tratti – irrimediabilmente per parlarsi addosso, prigioniero com’è – da ormai diversi anni a questa parte – della propria, marcata (e, a volte, addirittura gratuita) estetica.