In occasione dell’80° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, il celebre regista e fotografo greco Yorgos Lanthimos si è aggiudicato il Leone d’Oro con Poor Things – Povere creature (al link la recensione). Un film, il presente, indubbiamente molto atteso da parte dei suoi estimatori, sebbene, nel corso degli anni, l’approccio al mezzo cinematografico del cineasta di Atene sia indubbiamente cambiato molto.
Già, perché, di fatto, se ripensiamo ai primi film da lui realizzati in patria (dove è stato, insieme a registi come Alexandros Avranas e Athina Rachel Tsangari – giusto per fare qualche esempio – fondatore della New Wave greca) ci rendiamo conto di come il suo modo di manovrare la macchina da presa e di mettere in scena turbamenti, passioni e perversioni degli esseri umani sia via via cambiato e spesso non soltanto dal punto di vista estetico.
Quando nel 2015 il regista ha realizzato The Lobster – il suo primo film girato in lingua inglese – dati i temi trattati e la singolare – e paradossale! – realtà messa in scena, ci siamo resi conto di come alcune costanti del suo primo cinema erano rimaste quasi del tutto inalterate.
Il discorso cambia nel momento in cui si prende in considerazione La Favorita (2018) – anch’esso presentato in concorso a Venezia – dove, alla corte di Anna Stuart, una regia ricca di grandangoli ci racconta il patriarcato e i controversi rapporti tra tre donne, rinunciando a ogni “estremismo” che ha caratterizzato i suoi primi lungometraggi.
Dovendo, dunque, ripercorrere le più importanti tappe della filmografia di Yorgos Lanthimos, tre film che al meglio ci fanno comprendere il suo percorso in poco più di vent’anni di carriera sono Kinetta (2005), Dogtooth (2009) e, appunto, La Favorita (2018). Vediamo, nello specifico, perché.
Kinetta
Primo film scritto e diretto da Yorgos Lanthimos, Kinetta è una profonda e mai banale riflessione sul fare Cinema, sul mettere in scena, ogni volta, realtà diverse, scoprendo, al contempo, nuovi linguaggi che vanno oltre la classica messa in scena.
Kinetta, dunque, è una località balneare dove sono stati commessi diversi omicidi.
Un poliziotto in borghese inizia a indagare con metodi non proprio convenzionali e, a tal fine, ingaggia il commesso di un negozio di attrezzature fotografiche, il quale, a sua volta, è solito lavorare come operatore video part-time.
Ai due si unirà una giovane cameriera e tutti insieme ricostruiranno volta per volta i diversi delitti, mettendo in scena il tutto per l’occasione e riprendendo le ricostruzioni con una macchina da presa.
Le immagini sono ricche di dettagli e di primi piani, ricordando girati amatoriali.
I movimenti della macchina da presa, rigorosamente a mano, ci stupiscono, ci confondono, ci ammaliano nel raccontarci questa storia che può sì risultare ostica, ma che, innanzitutto, si distingue per una forte, fortissima voglia di sperimentare, di andare “oltre”, di scoprire ciò che la settima arte ancora non ha scoperto.
Per questo motivo, dunque, Kinetta può a tutti gli effetti essere considerato il lungometraggio più ardito e più estremo di Yorgos Lanthimos, che ha fatto da apripista a una filmografia in continua evoluzione.
Dogtooth
Probabilmente l’opera più famosa del Lanthimos della New Wave greca, Dogtooth ha ufficialmente reso famoso il regista a livello internazionale. Ciò che immediatamente notiamo, qui, è innanzitutto un brusco cambio di stile, per una storia che, se da un lato ci appare decisamente più lineare, dall’altro mette in dinamiche famigliari malate all’interno di un contesto angusto e a dir poco surreale.
Una ricca famiglia altoborghese vive in una grande villa totalmente isolata insieme ai tre figli, un maschio e due femmine, ormai adulti. I ragazzi non sono mai usciti di casa, dal momento che i genitori hanno detto loro che al di fuori del recinto della loro abitazione c’è un mondo pericoloso e malato.
I giovani, al contempo, sono continuamente sottoposti a sfide e prove, per poi essere costantemente giudicati dagli adulti, i quali, a loro volta, evitano addirittura determinate parole considerate “pericolose”, avendo creato un apposito linguaggio.
Soltanto una volta che i ragazzi perderanno uno dei loro canini potranno finalmente uscire di casa.
Una fotografia dai colori freddi ben si sposa, in Dogtooth, con inquadrature spesso simmetriche e studiate fin nel minimo dettaglio.
La rigidità delle regole della famiglia viene ben rappresentata da una messa in scena composta e rigorosa, all’interno della quale v’è una quasi totale assenza di musiche (a eccezione delle musiche prettamente diegetiche) e dialoghi ridotti all’osso.
Rispetto al precedente Kinetta, Dogtooth trova uno stile visivo totalmente diverso, mettendo in scena situazioni estreme e facendosi, al contempo, importante metafora della storia contemporanea del paese di Yorgos Lanthimos (e non solo).
La Favorita
La Favorita, a differenza delle ultime sue opere, è stato solamente diretto e non sceneggiato da lui. Già, perché, di fatto, il film – vincitore del Gran Premio della Giuria e della Coppa Volpi per Olivia Colman a Venezia – vuole innanzitutto far riflettere sulle condizioni delle donne all’interno della società, facendo importanti parallelismi con ciò che, appunto, accadeva nel diciottesimo secolo alla corte di Anna Stuart, quando l’Inghilterra era in guerra contro la Francia.
Anna (Colman) è una donna non più giovane e capricciosa, la quale soffre costantemente a causa della gotta e che si fida soltanto di Lady Sarah (Rachel Weisz), nobildonna calcolatrice che le fa da consigliera e che vuole assolutamente portare avanti la guerra.
L’ascendente di quest’ultima sulla regina, tuttavia, sembrerà affievolirsi nel momento in cui a corte arriverà la giovane Abigail (Emma Stone), una sua lontana parente.
Attraverso sottili giochi di potere e drammi personali, Yorgos Lanthimos, ha dunque messo in scena un mondo in cui il patriarcato gioca ancora un ruolo fin troppo centrale. Ambienti angusti e sontuosi allo stesso tempo ci trasmettono un senso di claustrofobia pari a quanto era accaduto in Dogtooth, ma qui inquietanti grandangoli rendono il tutto ancor più estremo (seppur leggermente più manierista).
Il nichilismo che il regista ha messo in scena da sempre anche qui si fa sentire più forte che mai. Eppure, il suo cinema sta prendendo pian piano una direzione diversa. Una direzione più mainstream, una direzione che agli affezionati può far storcere il naso, ma che, tuttavia, tenta ad ogni modo di lasciare un proprio segno.