Denis Villeneuve è tra i pochissimi registi che possono vantare un consenso quasi unanime di critica e pubblico, da risultare sostanzialmente un simbolo della settima arte del proprio tempo.
La sua è stata una carriera fino ad adesso, forse meno prolifica di quella di tante altre, ma incredibilmente ricca di successi, capace di donarci film estremamente vari sia per genere sia per l’atmosfera o l’ambientazione.

Nonostante ciò, lo stile di Villeneuve rimane inconfondibile perchè raffinato e affascinante, e fin dalle prime opere si distingue per una visione del mondo basata sugli opposti, costretti però ad incontrarsi, a conoscersi e ad intrecciare il proprio destino.

In un cinema dominato da effetti speciali, cast corali ed un ritmo sempre più alto, la sua concezione della settima arte invece si accompagna ad uno sguardo intimo e molto personale.
Il rimto per lui segue quello della realtà, della vera interazione nel mondo reale.
Maelstrom, August 32nd on Earth e Polytechinque, pur molto diversi tra loro, sono accomunati da una ricerca di sublimazione dello spazio e del tempo e anche dallo sposare una concezione diegetica in cui domina la contemporaneità.

Lo sguardo di Denis Villeneuve è assolutamente neutro, quasi un cronista più che un deus ex machina.
La Donna che Canta, da questo punto di vista è stato forse il film della svolta, soprattutto per la poetica dove la narrazione diventa un contenitore per conflitti riguardanti la coscienza, la morale e il dovere verso il prossimo.
L’empatia è un tema ricorrente, declinata sia come mimesi tra protagonista e spettatore sia come un’assenza grave nella società moderna.

Altro elemento preponderante nella sua cinematografia, che lo rende sicuramente atipico rispetto alla norma hollywoodiana, è il fatto che nel mondo visto attraverso gli occhi di Villeneuve, il bene e il male si sovrappongono: non esiste una chiara demarcazione e non esiste il male assoluto così come neanche il bene incondizionato.
Vi è chiaramente un grande amore per l’uomo e viene mostrato senza giudizi morali, ma con uno sguardo colmo di una pietas che sfiora sovente la religiosità.

Villeneuve indaga l’essere umano, lo scruta, ce ne mostra l’incredibile complessità e il suo dipendere dagli eventi. Prisoners da questo punto di vista, è sicuramente il suo film più complesso e più profondo, quello in cui tenebre e luce si attraversano e si intersecano, mentre si parla della disperazione di un padre alla ricerca spasmodica della figlia rapita.

Il mondo è pieno di oscurità per Villeneuve, è un mix di tenerezza ed orrore, di altruismo e crudeltà ed è dove siamo costretti a vivere e a lottare ogni giorno, per salvaguardare la nostra anima e il nostro equilibrio.
Tale conflittualità è declinata innanzitutto come interna al singolo individuo che è sempre chiamato a confrontarsi con le tentazioni per decidere chi e cosa vuole essere e quale direzione prendere.
Sono le nostre scelte che ci identificano, non le nostre parole ed è una certezza che Villeneuve ci ha comunicato in film come Enemy ma soprattutto come Sicario, sicuramente il suo lavoro migliore fino ad oggi.

La lotta tra i narcos messicani e il governo americano, diventa nelle mani di Denis Villeneuve un cammino attraverso una strada oscura, eppure esemplificativa di come egli concepisca la vita: un percorso accidentato in cui si è chiamati di volta in volta a guardare in faccia la realtà, circa la nostra natura e le nostre intenzioni. 
Sicuramente Denis Villeneuve ama le creature oscure, distanti dall’epica dell’eroe americano, anche perché il suo sguardo sovente si fa politicamente molto complesso, tanto severo nei confronti delle istituzioni e del “sistema”, quanto egualmente tollerante verso le miserie umane, conscio che la causalità, la connessione tra azione e reazione, spieghi quasi sempre anche la malvagità.

Oltre che in Sicario, tale idea è evidente anche in Arrival, uno dei film di fantascienza più originali e diversi dalla norma visti nel XXI secolo, dove al posto di effettoni o alieni sanguinari, è la necessità di creare una empatia e una comunicazione a farla da padrone.
La ragione contro l’emotività, ma forse di più ancora l’amore contro la paura.
Denis Villeneuve crede sicuramente più nei singoli individui che nella massa, il suo è un cinema che da questo punto di vista appare a volte paradossale, visto che non ama la figura dell’eroe classicamente concepita, eppure confida negli individui eccezionali. Il suo è un cinema che serve sempre la soggettività e un esempio, forse il titolo a cui si associa maggiormente il nome di di Villenueve, è Blade Runner 2049, sequel del classico di Ridley Scott pieno di richiami e connessioni al mondo degli anime, dei manga e al genere cyberpunk.

Pur essendo incredibilmente abile nel regalare emozioni e sensazioni potentissime con i suoi film, grazie alla sua capacità di rendere comunicanti micro e macro, di nobilitare le immagini, i suoni e gli sguardi rispetto alle parole, il suo è un cinema sicuramente freddo e distaccato.
Il che naturalmente non è da concepire come un difetto.
Tale aspetto è assolutamente coerente con il suo mettersi al servizio dei personaggi, delle loro storie, con il voler indagare e quindi palesare una ricerca, che come tale, necessita di un atteggiamento più da osservatore, quasi da chirurgo intento a dissezionare un corpo per carpirne i segreti.

Aspettando il suo Dune, certamente non si può che prendere atto del fatto che Denis Villeneuve è uno dei registi più importanti e degli autori più distanti dallo scolastico, soprattutto appare in controtendenza rispetto ai tempi, ad un mondo sempre più veloce e frenetico, ad una narrazione sempre più schiava della tecnologia e staccata dai bisogni umani.