L’attesa era spasmodica, quasi insopportabile, accompagnata da paura e tensione oltre che dal sospetto che l’hype venisse deluso dalla realtà, la settima arte tradisse ancora una volta le attese. Dune è stato a lungo un incubo cinematografico: per Lynch che si perse nel deserto a causa di una produzione troppo invasiva e dittatoriale, per Jodorowsky che non poté portare a termine il suo progetto e infine per la televisione che propose ad inizio millennio due serie abbastanza dimenticabili.

Il testimone (o patata bollente) è stato accolto da uno dei più grandi cineasti dell’ultima generazione, Denis Villeneuve che con Arrival e Blade Runner 2049, si era guadagnato il plauso della critica e, cosa non scontata, il rispetto di chi ama la fantascienza.

Il suo Dune arriva forte di un cast a dir poco straordinario, con maestranze di grandissimo livello ma soprattutto raccogliendo le speranze di un movimento, di un’industria in generale, che spera di farne il cavallo di battaglia verso la riscossa globale.
Forse le avventure (e disavventure) di Paul Atreides possono essere la chiave per ricominciare dove la pandemia ha interrotto? Speriamo, ma una cosa bisogna dirla: Villeneuve ha creato tutto tranne che un’opera commerciale, ha rivendicato la sua visione ed il suo cinema fatto di freddezza e fascino, di intimità e contrasti.

La Casa Atreides, il complotto ordito dall’Imperatore e dagli Harkonnen sul pianeta Arrakis per eliminarli, rivive in un film che è forse troppo lento inizialmente, si adagia con troppa comodità sui costumi di Bob Morgan e Jacqueline West e sulle stupende scenografie di Patrice Vermette.
Poi però, anche grazie alla colonna sonora di un Hans Zimmer in forma smagliante, tutto viene accelerato, veniamo sommersi da un cromatismo a dir poco ipnotico, dominato però sempre dal freddo che stringe sabbia e pietra, nuvole e metallo.
Leto qui è un Duca attento e sagace, ma anche pieno di dubbi, non abbastanza sagace da capire la trappola che sta per scattare, Chalamet dopo The King ci dona un altro ritratto di un giovane leader in fieri, qui però toccato dal seme di una futura tirannia e dalla dimensione trascendente più disturbante.

Vi è energia in questo Dune, soprattutto vi è coerenza nel volerne fare un capitolo introduttivo, il tentativo (non completamente riuscito, ma onorevole) di creare un minimo di interesse per ogni personaggio, il dare ad ognuno di loro il giusto spazio.
Sogno e realtà, sangue e onore, vi è tutto questo e molto di più in Dune di Villeneuve, vi è il motivo per cui da tanti anni, questa serie di romanzi affascina così tanto. Ci arriva anche la difficoltà della sua creazione, la dimensione complessa di onorare una metafora della nostra storia, di come l’Europa e l’Oriente sono stati fondati e distrutti più e più volte.

Dune però raggiunge il suo scopo, quello di portare qualcosa di nuovo, in un genere che per la verità in questi anni ha regalato tante soddisfazioni, ma che non ha donato alla settima arte una nuova saga, un qualcosa di veramente iconico e generazionale.
Ci riuscirà? Speriamo, soprattutto perché una cosa, dopo 155 minuti di deserto e Vermi, di battaglie e sguardi colmi di paura, appare chiara: la serialità televisiva è potente, ma non può bastare, non è sufficiente, non per film così, non per racconti di questa portata.

Il cinema, la sala, sono inimitabili.
La speranza ora è quella di un successo travolgente, sarebbe imperdonabile dover rinunciare al seguito, dover salutare questo Paul, la speranza di capire se veramente Villeneuve aveva peccato di presunzione, o era il cineasta giusto per mostrarci il mondo di Herbert, che da quel 1965, ha posto le basi per gran parte delle narrazioni che ci hanno tenuto compagnia in questi anni. Lo sapremo solo col tempo e magari con un po’ di Spezia…