Il potere della voce. La libertà di espressione. Quanto possono questi due concetti essere considerati “pericolosi”? Tutto dipende, ovviamente, dal luogo e dal periodo storico in cui gli stessi vengono contestualizzati. E se pensiamo all’Europa orientale all’epoca della cortina di ferro, ecco che esprimere le proprie idee ed esortare il popolo a “svegliarsi” può avere le più impensabili conseguenze. Persino quando si tratta semplicemente di fare musica. Ne sa qualcosa a tal proposito il giovane e carismatico Frank, protagonista, appunto, del lungometraggio Erasing Frank, opera prima del giovane cineasta ungherese Gabor Fabricius e presentato in concorso all’interno della selezione della Settimana della Critica alla 78° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.

La vicenda è ambientata nel (non troppo) lontano 1983. Frank, dunque, abita a Budapest ed è il cantante di un gruppo punk bandito. Una sera, durante un concerto, il ragazzo viene arrestato e condotto in un ospedale psichiatrico. Dal momento, però, che la sua ragazza è un medico che lavora in quello stesso istituto, egli potrebbe avere l’opportunità, in qualche modo, di salvarsi scappando all’estero. Ma sarà davvero tutto così semplice?

Un ruvido, crudo bianco e nero ci conduce per mano in un vero e proprio labirinto di cui in nessun modo si riesce a trovare l’uscita. La macchina da presa si muove nervosa attraverso i lunghi e tortuosi corridoi dell’ospedale. Primi piani di volti sofferenti e dagli sguardi persi nel vuoto ci fanno intuire i metodi con cui i pazienti (molti dei quali, in realtà, perfettamente sani di mente) vengono “tenuti a bada”. L’Odissea di Frank sembra senza via di scampo alcuna. Egli, tuttavia, è soltanto uno dei numerosi cittadini perseguitati fino alla fine degli anni Ottanta nell’Europa dell’Est.

La macchina da presa del regista (che malgrado la sua poca esperienza nel campo ha dimostrato di sapere il fatto suo) si concentra quasi esclusivamente sul giovane protagonista. Ciò che lo circonda (ora gli ambienti dell’ospedale, ora tunnel della metropolitana, ora locali dove vengono organizzati concerti e manifestazioni) viene mostrato quel poco che basta per rendere l’idea allo spettatore del contesto in cui il lungometraggio è ambientato. Il percorso del protagonista è costantemente in discesa. I ritmi sono serratissimi, il montaggio frenetico. Gabor Fabricius ha dimostrato di saper gestire ottimamente tempi e spazi, sebbene questo suo Erasing Frank tenda leggermente a girare a vuoto in particolare intorno alla metà. La disperazione del protagonista risulta viva e pulsante, incredibilmente dolorosa sul grande schermo.

A tal fine, una regia complessivamente sicura di sé (fatta, ovviamente, la dovuta eccezione per brevi, perdonabili momenti di incertezza) evita sapientemente ogni ridondante virtuosismo (perfettamente azzeccata, al contempo, la scelta del bianco e nero), ma, nel suo essere particolarmente diretta e priva di fronzoli, riesce fin da subito nel suo intento di scioccare, disorientare, stravolgere lo spettatore, facendolo sentire parte del film fin dai primi minuti. Perché, di fatto, è proprio questa la grande peculiarità di Erasing Frank: il suo potere quasi “magnetico”, annichilente. Sfocata fotografia di un passato recente le cui cicatrici sono ancora chiaramente visibili.