È inutile ormai nasconderlo: Dune di Denis Villeneuve è il film più atteso di quest’annata cinematografica.
L’opera filmica del regista canadese promette d’essere un colossal Sci-Fi, prima parte dell’adattamento su grande schermo dell’omonimo romanzo di Frank Herbert. Il ciclo di Dune è stato già adattato in passato col film del 1984 di David Lynch, finito tuttavia per essere un buco nell’acqua. Villeneuve, che è un cineasta di rara bravura, non è nuovo a scommesse simili. Ricordiamo infatti Blade Runner 2049, seguito spirituale dell’immortale capolavoro di Ridley Scott che, nonostante la solennità dell’opera da cui trae ispirazione, riesce a mettersi in proprio, stupendo e rivelandosi uno dei film più validi degli ultimi anni. In vista del suo nuovo progetto, in questo articolo ci soffermeremo a parlare delle pellicole più belle della sua filmografia, vale a dire quasi tutte. Perché ciò che stupisce di Denis Villeneuve è esattamente questo, ossia l’incapacità di fare film brutti.

Polytechnique

Il fulcro narrativo è la strage del 6 dicembre 1989 all’École Polytechnique di Montréal, quando il giovane Marc Lépine uccise a colpi d’arma da fuoco tredici studentesse, insieme ad una dipendente dell’Università, per un totale di quattordici vittime, per poi togliersi la vita. È una pellicola che strizza l’occhio ad Elephant di Gus Van Sant, del 2003, differenziandosi naturalmente a modo proprio. Qui la violenza non è mai sensazionale, non si ritrae la tragedia con clamore, ma si mostra solo ciò che è necessario ai fini della storia.

Se avrò un figlio gli insegnerò ad amare.

Se avrò una figlia le insegnerò che il mondo le appartiene.

Non si simpatizza mai con il carnefice, ma la citazione soprastante è indicativa per comprendere la linea di pensiero dell’autore. L’odio non appare come qualcosa d’innato, ma la conseguenza di una serie d’impulsi non meglio identificati. La pretesa di comprendere a pieno il “perché” delle folli gesta non c’è, ma ci si limita a riconoscerne l’esistenza. Più che negli eventi narrati, viene condensata la tensione nei toni. È buio, cupo e desolante. La scelta del bianco e nero impreziosisce il film, il quale risulta così ancora più crudo ed esanime.

Sicario

Denis Villeneuve non ha mai avuto paura del vuoto, di ciò che si prova ad affrontare di petto un futuro incerto. Considerando gli albori della sua carriera da regista, la figura femminile ha sempre trovato un suo spazio rilevante. Nel caso di Sicario, il quadro generale relativo al traffico di droga non è nulla più che un pretesto per parlare d’altro. Di fatto, a Villeneuve del traffico di droga sembra interessare poco o nulla. Al contrario, il regista vede questo solo come uno sfondo per alcune delle violenze più efferate del mondo, assumendo le sembianze di uno di quei luoghi capaci di farti perdere la speranza nell’umanità intera.

Sicario ti pone una domanda secca e chiara: puoi combattere un mostro senza diventarne uno a tua volta? Kate Macer, interpretata dalla favolosa Emily Blunt, ne è in grado, ma non senza difficoltà. Terribili sono le sequenze viscerali e paralizzanti presenti lungo tutta la durata dell’opera, che fanno raggelare il sangue. Da sottolineare la grande prova di Benicio Del Toro, qui nei panni dell’agente Alejandro, il quale non esita a rubare la scena grazie ad un personaggio scritto divinamente. Presentandosi come anti-eroe, catalizza su di sé le simpatie e l’odio dello spettatore, con la sua presenza intimidatoria capace di rendere le sue parole (così come i suoi silenzi) terrificanti.

Enemy

Quando si parla di film rompicapo, capaci di farti arrovellare nelle sue varie teorie, molteplici sono i nomi che saltano alla mente. Inception, Predestination, Intertellar; questi sono alcuni degli esempi più classici del genere, ma c’è un film che si piazza sul gradino superiore. In quanto ad indecifrabilità, Enemy dovrebbe infatti essere considerato l’alfiere dei film criptici negli ultimi anni. Liberamente tratto dal romanzo L’uomo duplicato (2002) di José Saramago, è la storia di un uomo il quale vede la sua quotidianità sconvolta da un’inquietante scoperta, vale a dire l’esistenza di una persona identica a lui in tutto e per tutto.

Le chiavi di lettura sono tante, troppe, ma una morale che si evince senza dubbio alcuno è quella secondo cui ogni individuo è l’unico vero nemico di se stesso. Anthony e Adam (Jake Gyllenhaal) sono due figure all’apparenza indistinguibili, ma che celano dietro le loro sembianze due caratteri agli antipodi. Se da una parte c’è la pacatezza, l’insicurezza e la cordialità, dall’altro troviamo ira, furbizia e cinismo. Gyllenhaal fa un lavoro eccellente nel diversificare la mimica e le movenze in base al personaggio interpretato, capace così di mettere in evidenza le grandi differenze tra i due. Anche qui, ancora una volta, la donna è capace di far orbitare attorno a sé i destini dei personaggi, trasformandosi quasi in simbolo delle convenzioni sociali che mai come in questo caso si rivelano asfissianti per l’uomo.

Arrival

Nella variegata filmografia di Villeneuve subentrano nel 2016 gli alieni, quelli di Arrival. Alieni che, naturalmente, non potevano che essere nettamente differenti da quelli di Alien o Independence Day. La storia racconta dello sbarco sul nostro pianeta di alcune astronavi denominate “gusci”, frutto di una tecnologia extraterrestre. La linguista Louise Banks (Amy Adams) viene inserita in una squadra speciale con lo scopo di trovare un punto di contatto con gli eptapodi, o almeno così vengono chiamati, al fine d’instaurare un dialogo.

Ispirato dal meraviglioso libro Storia della tua vita di Ted Chiang, Arrival nella sua delicatezza è a dir poco poetico. L’idea di un approccio aperto e cooperativo verso una razza aliena potenzialmente ostile è brillante nonché innovativo, e mette così fuori gioco tutti gli stereotipi di genere pregni di attacchi nucleari, guerre e raggi laser mortali. Tema cardine è la comunicazione, la fragilità della reciproca comprensione e il saper ascoltare l’altro con mente predisposta al dialogo. È una splendida parabola sull’essenza dell’interazione umana, riflessa su una realtà apparentemente aliena, ma tremendamente vicina alla nostra. Il lavoro svolto sul sonoro, riconosciuto con l’Oscar a Sylvain Bellemare, amalgama il tutto con dei suoni profondi, delle musiche roboanti capaci di esaltare la maestosità di quanto accade sullo schermo.

Blade Runner 2049

Pensare di poter dirigere un sequel di un cult intramontabile come Blade Runner è da folli. Riuscirci con grande successo è da predestinati. Con Blade Runner 2049 veniamo immersi nell’elettrizzante mondo cyberpunk del celebre film di Scott, datato 1982. Ora a dettare legge è Joe, alias Agente K (Ryan Gosling), intento alla caccia senza sosta dei replicanti Nexus, pronti ad innescare una nuova fiorente ribellione. Le vicende sono tante e si susseguono con buon ritmo, ma ciò che di clamoroso racchiude quest’opera si riversa tutto sugli occhi, travolgendoti con colori fulgidi, ambienti suggestivi e una cura maniacale del dettaglio. Merito del DOP per antonomasia, Roger Alexander Deakins, non nuovo a collaborazioni con Villeneuve, vincitore del suo primo premio Oscar proprio grazie a questa pellicola.

La storia d’amore tra l’Agente K e Joi (Ana De Armas) funziona, coinvolge e tocca tasti delicati riguardanti la natura umana e la definizione stessa d’umanità. Il sound design completa l’esperienza filmica a 360°, proprio come la stupenda colonna sonora che l’accompagna. Blade Runner 2049, lontano quindi dall’essere un sequel acchiappa soldi, si stabilisce nella nuova cinematografia come un’opera d’arte vera e propria, all’interno della quale ogni frame diventa un dipinto, tanto bello quanto complesso. È la prova empirica di come anche i mostri sacri, da molti ritenuti intoccabili, possono far nascere nuove opere grandiose se messi nelle mani giuste.

Prisoners

denis villeneuve

Via il dente, via il dolore: Prisoners è il miglior thriller degli ultimi 10 anni.

Stabilito ciò, capirne il perché risulta semplice dopo la visione. Si racconta della sparizione di una bambina in una tranquilla cittadina della Pennsylvania, dello sgomento di una famiglia allo sbando, di un poliziotto determinato a risolvere il caso e di un padre che non ha tempo per aspettare il decorso naturale della giustizia. Questo prodigio della cinematografia contemporanea racchiude al suo interno tutti gli elementi che determinano la ben riuscita di un thriller da manuale. La storia è spietata, piena di colpi di scena, mai statica e dai continui cambi di direzione. Deakins, ancora una volta DOP, crea con risultato eccelso delle atmosfere tenebrose, tra il buio freddo della notte e la pioggia battente, in una spirale di angoscianti spiritualismi che rendono visivamente la narrativa più tetra man mano che il mistero s’infittisce.

Davanti alle prove attoriali di Hugh Jackman e Jake Gyllenhaal è impossibile restare indifferenti. Il primo nei panni del padre, mentre il secondo nelle vesti del detective, regalano due performance che alzano ulteriormente l’asticella di un prodotto già di altissima qualità. Denis Villeneuve confeziona un vero e proprio gioiello colmo di suspense ed azione, con un epilogo che lascia col fiato sospeso, aggiungendo così alla sua già impeccabile filmografia un’opera maestosa.