In quale misura il linguaggio può determinare e influenzare la nostra percezione della realtà? È questa la domanda fondamentale intorno a cui è costruito Arrival, il film di Denis Villeneuve presentato in concorso a Venezia73. Partendo dal quesito che è alla base dell’ipotesi dei linguisti Sapir e Whorf, il regista canadese e il suo sceneggiatore Eric Heisserer strutturano un thriller fantascientifico teso come una corda di violino e con una suspense perfettamente costruita.
Se lo spunto di partenza è tra i più abusati del genere, ovvero l’arrivo di navicelle aliena sulla terra, il punto di vista del film è al contrario totalmente nuovo: protagonista del film è infatti una importante linguista (l’intensa Amy Adams) chiamata a decifrare il linguaggio di questi visitatori eptapodi. Ad affiancarla un fisico (Jeremy Renner) che fa da controparte scientifica alla troppo “umana” traduttrice.
Da qui prende il via un’indagine linguistica che pone non pochi interrogativi sulla reale capacità di comunicare di una società come la nostra che sembra aver fatto proprio di questo principio il suo nuovo idolo; al contrario, pur ostentando un’apparente volontà di connessione, in realtà continua a coltivare i semi dell’incomprensione, del non sapere e volere capire chi ci troviamo di fronte. Sono gli esseri umani, infatti, più che gli alieni, quelli incapaci di comunicare, di trovare un canale attraverso cui istaurare una forma di comprensione universale.
“La lingua è la prima arma che viene sfoderata in guerra, ma anche il fondamento della civiltà” dice la protagonista del film, ricordandoci quanto sia importante la capacità di comprendere l’altro attraverso il linguaggio e la scrittura, ma anche di quanto sia difficile farlo. “Le parole sono importanti” dice Nanni Moretti schiaffeggiando una giornalista linguisticamente sciatta in Palombella Rossa perché “chi parla male, pensa male e vive male”. Villeneuve sembra essere assolutamente d’accordo, riconoscendo al linguaggio un peso ancora maggior che raggiunge addirittura e mette in discussione il concetto stesso di spazio e tempo. Il film cerca così, nella sua costruzione, una nuova forma narrativa non lineare e unidirezionale, ma che vada da entrambe le parti, in una sorta di palindromo temporale che non cade mai nella contraddizione.
Il presupposto linguistico-filosofico non deve far pensare al peggio: l’abilità di Villeneuve sta proprio nel riuscire ad utilizzare il sottotesto non per appesantire il film ma per aggiungere all’opera una componente emotiva forte (che solo nel finale sfocia appena nel sentimentalismo), senza per questo rinunciare alle potenzialità visive e uditive del genere. Se però la fantascienza cinematografica è stata spesso in passato l’incubatore occulto delle paure del diverso e dell’invasore, diviene ora lo strumento per una riflessione sulla necessità di cooperare e di comprendere l’altro, e una dimostrazione dell’enorme potere del linguaggio.
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