Wes Anderson ha lasciato il segno. Un segno di stile, un tratto distintivo e manierista che gli ha permesso di raggiungere il successo nel giro di pochi anni dall’uscita del suo primo lungometraggio dal titolo Un Colpo da Dilettanti (Bottle Rocket) del 1996.
Ma cosa attira di più del cinema di Wes Anderson?
Ciò che colpisce maggiormente lo spettatore sono i colori e il design anni ’60, ’70, per non parlare dei suoi personaggi così perfettamente pensati e assorbiti nel loro mondo di riferimento.

Ogni personaggio wesandersoniano si contraddistingue per stile, carattere e abitudini più o meno peculiari: i protagonisti bambini tendono ad avere un atteggiamento adulto, mentre questi ultimi sono spesso infantili, ma non sono sempre come sembrano.
Wes, lasciandosi ispirare da colossi del cinema come Kubrick, Polanski e Almodóvar, dà vita a storie dolceamare in cui l’attenzione per la simmetria e la centralità delle inquadrature rivelano contaminazioni retrò.
La fotografia si impernia fortemente sulle proporzioni e su un’armonia cromatica fatta di contrasti e tinte più o meno sature. Ciò che colpisce è il perfetto equilibrio che c’è dietro ogni inquadratura e ogni ripresa, lasciandoci pensare sempre alla perfezione di un dipinto su tela.
Un cinema incredibilmente ricco e variegato, quello di Wes Anderson, che ci conduce in mondi al limite del fantastico, contaminati spesso da epoche lontane.
Iniziamo il breve viaggio attraverso tre film iconici del visionario regista texano.
I Tanenbaum (2001)

Se con Rushmore (1998) prende piede in Wes Anderson la consapevolezza di utilizzare protagonisti perdenti, insoddisfatti e stravaganti, con I Tenenbaum (titolo originale The Royal Tenenbaums) questi vengono inseriti in una famiglia problematica.
The Royal Tenenbaums non è una famiglia nobile, ma si il nome riferisce semplicemente a quello di uno dei protagonisti: il disfunzionale padre di Chas (Ben Stiller), Margot (Gwyneth Paltrow) e Richie (Luke Wilson), nonchè marito di Etheline (Anjelica Huston), interpretato da uno scapestrato Gene Hackman.
I Tenenbaum racconta di una famiglia in cui i tre bambini prodigio, crescendo con l’assenza e l’incostanza del padre, sono diventati adulti vuoti, incompleti e problematici.
I Tanenbaum è una commedia nella quale sono inseriti forti componenti drammatiche che danno spessore ai personaggi e ancorano la storia alla realtà.
La perfezione formale delle inquadrature è solo una facciata stridente in cui si evolvono insicurezze e incomprensioni all’interno di una famiglia caotica e sopra le righe.

Nel film la voce fuori campo (caratteristica comune a molti film di Anderson) ci introduce alla storia attirando la nostra attenzione. La musica è un aspetto fondamentale che esalta il film segnando ogni situazione vissuta dai personggi, emotiva compresa.
Da qui in poi si consolidano le scelte stilistiche del regista che diventeranno sempre più riconoscibili: i colori si fanno un po’ più saturi e nelle inquadrature fisse tutto è dato dal montaggio in camera.
I Tenenbaum è una deliziosa commedia che ci fa abituare ad una perfezione fittizia, per mostrarci qualcosa di più realistico e sopra le righe.
Grand Budapest Hotel (2014)

Un hotel pittoresco, raffinato e un tempo rinomato.
Sono queste le parole dell’autore che narra a poco a poco la fascinosa storia e il decadente destino del Grand Budapest Hotel.
Grand Budapest Hotel rappresenta una perfetta sintesi del cinema di Wes Anderson oltre ad essere la sua opera più apprezzata, grazie alla quale si è aggiudicato diversi riconoscimenti tra cui Il gran premio della giuria alla 64ª edizione del Festival di Berlino e 4 Oscar.
Ispirato al libro Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo dello scrittore austro-inglese Stefan Zweig, Grand Budapest Hotel inizia nel 1968 proprio con il giovane scrittore (Jude Law) che cerca una storia dentro ai fasti perduti del famoso hotel della Repubblica di Zubrowka.
Il film riprende dal genere caper (in cui i protagonisti hanno un grosso colpo da fare) raggiungendo il suo apice con la fuga dal carcere di M. Gustave e con lo scontro all’interno dell’hotel.

Grand Budapest Hotel è costruito secondo un sistema di parentesi che a poco a poco approfondiscono lo sviluppo della storia e dei personaggi, trascinandoci all’interno di un’avventura fatta di prospettive e di ambientazioni retrò.
I protagonisti sono in perfetta sintonia tra loro e i toni rilassati di una commedia prendono quasi da subito il ritmo di un giallo in cui la fuga è il solo modo di M. Gustave per riscattarsi.
In verità Grand Budapest Hotel è affascinante e meravigliosamente poetico nella sua ricchezza di riferimenti al cinema dei primi decenni del Novecento: le proporzioni dell’immagine, gli escamotage cromatici (grazie alla magia del cinema dà la sensazione di bianco e nero pur essendo a colori) e la scelta di utilizzare l’effetto iride (in inglese: iris shot) in alcune transizioni ne sono qualche esempio.
L’Isola dei cani (2018)

Dopo averci conquistato con Fantastic Mr. Fox nel 2009, il regista torna a dar vita ad un nuovo film d’animazione utilizzando anche questa volta la tecnica dello stop motion.
L’eterna lotta tra cani e gatti viene raccontata da Anderson con arguzia e la giusta dose di ironia toccando temi sensibili come l’esilio della minoranza canina e il rischio di essere soppressi con la scusa di un’influenza canina – il tartufo febbrile – che si diffonde a macchia d’olio tra tutti i cani dalla città di Megasaki.
Con L’Isola dei Cani Anderson crea dei modelli dei personaggi perfettamente credibili, che vivono un’avventura ricca di amicizia.
Si parte con un il prologo che narra le gesta del piccolo samurai e di come i cani siano diventati animali domestici.
Organizzato come un’opera del teatro kabuki, Wes Anderson sviluppa la sua trama attraverso un flashforward e portandoci avanti di circa vent’anni. Qui a governare Megasaki c’è il sindaco Kobayashi che, per via del tartufo febbrile, decide di esiliare ogni cane della città sull’isola dei rifiuti, senza neanche tentare una cura.
Sarà il piccolo pilota Atari, a cadere letteralmente sull’isola con il suo mini-aeroplano junior turbo prop per cercare il suo amico a quattro zampe di nome Spots, lottare e salvare tutti i cani.

Presentato al 68esimo Festival di Berlino, L’Isola dei Cani è una storia stratificata su cui vanno a svilupparsi contenuti sempre più profondi.
L’accanimento di Kobayashi nei confronti dei cani rappresenta una società in cui viene promossa una forma di odio nei confronti di una specie in difficoltà. I cani diventano vittima di una supremazia e del forte desiderio di potere da parte di Kobayashi.
L’Isola dei Cani lascia addosso un forte senso di umanità e riproduce il frutto di un lavoro estremamente accurato che riprende il cinema di Akira Kurosawa.
Anche qui ritornano quei caratteri distintivi del cinema di Anderson, ovvero personaggi simmetricamente posti al centro dell’inquadratura, movimenti della macchina da presa orizzontali e verticali e ampie inquadrature.
L’Isola dei Cani è l’ennesima prova che dimostra la grande capacità autoriale di Anderson e una sempre migliore voglia di giocare con estetica e narrazione.
[…] in concorso al 76° Festival di Cannes, Asteroid City, l’ultima fatica dell’acclamato regista Wes Anderson. Già, perché, di fatto, se, nel corso della sua lunga e rispettabile carriera, il cineasta è […]