Tanto fumo, niente arrosto, in concorso al 76° Festival di Cannes, Asteroid City, l’ultima fatica dell’acclamato regista Wes Anderson.
Già, perché, di fatto, se, nel corso della sua lunga e rispettabile carriera, il cineasta è riuscito più e più volte ad ammaliarci, quasi a ipnotizzarci con la sua estetica inconfondibile, si potrebbe addirittura affermare che – ahimé! – di tale estetica egli è rimasto inevitabilmente prigioniero. E in questo suo ultimo film, nonostante interessanti spunti di partenza, oltre all’estetica, dunque, resta purtroppo ben poco. Ma andiamo per gradi.

La storia messa in scena si sviluppa su due livelli (con tanto di cambio di formato e con continui passaggi dal bianco e nero al colore).
Una pièce teatrale in tre atti sta per essere messa in scena. Nel backstage (rigorosamente in 4:3 e, appunto, in bianco e nero), inizialmente, ci vengono presentati prima l’autore (Edward Norton), poi i personaggi. Cambio di scena.
Ci troviamo nella desolata cittadina di Asteroid City, nel bel mezzo del deserto. Tutto si svolge nel 1955. Qui, dunque, sta per avere luogo una piccola manifestazione in cui alcuni ragazzini particolarmente intelligenti presenteranno per la prima volta le loro invenzioni.
Alcuni di loro sono accompagnati dai genitori, di cui fanno parte un’affascinante attrice (impersonata da Scarlett Johansson) e un fotografo di guerra (Jason Schwartzmann), da poco rimasto vedovo e in viaggio, oltre che con suo figlio, anche con le tre gemelline più piccole. Tutto sembra andare per il meglio, finché, durante l’osservazione di un’eclissi, inaspettatamente un alieno giungerà sulla Terra, ruberà il meteorite che a suo tempo era caduto nei pressi della cittadina, e se ne andrà via.

In Asteroid City, dunque, Wes Anderson racconta un episodio di storia americana in un’epoca a dir poco cruciale, ossia quando, in piena Guerra Fredda, si sperimentavano nuove, pericolose armi (come possiamo vedere anche da lanci prova di bombe atomiche nei pressi della suddetta cittadina).
Il realismo assume connotazioni quasi astratte e surreali, come se, in realtà, ci trovassimo in una sorta di non luogo in cui ognuno deve fare prima o poi i conti con sé stesso. E il tutto, ovviamente, viene ulteriormente arricchito da un’interessante riflessione su cinema e metateatro grazie, appunto, a una cornice che, ogni volta “ci riporta con i piedi per terra”. Tutto molto interessante, senza ombra di dubbio.
Eppure, al presente Asteroid City manca comunque qualcosa. Che sia un necessario mordente a far sì che l’intera storia non finisce inevitabilmente per girare a vuoto? Che sia una maggiore vicinanza a tutti i personaggi presenti, al fine di non farceli risultare (fatta eccezione, forse, per Schwartzmann e la sua famiglia) tutti incredibilmente sterili?
Wes Anderson si auto-cita finendo inevitabilmente per restare prigioniero di sé stesso, perdendo l’occasione di sviluppare un discorso altrimenti con molto potenziale. Ma questa, in realtà, potrebbe essere letta come un’ulteriore tappa di un percorso tristemente in discesa iniziato già qualche anno fa (soltanto due anni fa, ad esempio, lo stesso The French Dispatch, anch’esso presentato a Cannes, aveva lasciato con l’amaro in bocca diversi spettatori).
Volendo essere (cautamente) ottimisti, si potrebbe pensare che questa sia soltanto una sua fase di stanca. Soltanto il tempo, però, potrà darci in futuro una risposta.