Come tutti i maestri del cinema, anche Polanski fa sempre lo stesso film la cui sostanza poetica resta identica pur nella variazione dei temi e delle forme adottati. Questo vale a partire dall’opera di esordio Il coltello nell’acqua (1962) fino all’ultimo La venere in pelliccia ( 2013) attualmente nelle sale. Quali che siano i generi utilizzati dal regista, l’elemento ricorrente nelle sue opere è una struttura circolare in seguito alla quale la situazione descritta non progredisce mai realmente rispetto al dato iniziale.
Ogni volta la dimensione dell’assurdo si configura come una vera ananche contro cui gli sforzi dei protagonisti si rivelano alla fine vani. Il carattere illusorio di ogni azione tendente a contrastare la logica di questa necessità viene reso, sul piano della struttura narrativa, dalla coincidenza, nel senso o nella figurazione, dell’ultima inquadratura di ogni film con la prima. In tal modo un ferreo determinismo frustra l’evoluzione del récit e fa sì che le stesse cose ritornino anche, e sopratutto, quando sembravano essere state definitivamente superate (Chinatown,1974). Lo svolgimento del racconto rinvia ogni volta ad una sfiducia radicale nella Storia, ad una concezione ciclica del Tempo che pone in dubbio le possibilità di successo dell’homo faber e presuppone la presenza di una Colpa originaria che pesa sull’Uomo, quell’Uomo che, secondo la cultura ebraica alla quale Polanski appartiene, è colpevole per il solo fatto di essere nato (proprio come accade al Joseph K., protagonista del romanzo Il processo dell’altro grande ebreo maestro dell’assurdo Kafka).
Questa concezione antiumanistica viene evidenziata dal particolare genere preferito dal regista, un genere che, anche se camuffato da tanti altri generi, resta sempre quello dell’”apologo morale”. Da tale scelta deriva il marcato antipsicologismo che caratterizza la filmografia polanskiana, dove i personaggi, più che creature a tutto tondo, risultano essere schemi di comportamento, elementi di un Meccanismo da cui essi sono agiti anche quando credono di agire per loro volontà. Per questo motivo, le opere più riuscite di Polanski sono quelle dove la chiave allegorica o allucinatoria prevale su quella psicologica (come nei primi cortometraggi e come in Cul de sac, 1966, e in Repulsion, 1965), opere in cui si realizza un vero “cinema della crudeltà”, che supera ogni limite naturalistico.
La natura “bloccata” della realtà vista da Polanski esclude, tuttavia, la presenza di una dimensione “tragica” poiché nei suoi film non esiste mai una vera opposizione alla Necessità (o Fato, o Storia che dir si voglia), manca, cioè, quel secondo termine di una dialettica che, solo, potrebbe garantire una opposizione decisiva all’Assurdo. Tutti i personaggi sono sempre destinati a cedere al richiamo del Negativo, a farsi inconsci seguaci di Satana anche quando seguono fedelmente il magistero del Papa (la sposina di Rosemary’s baby,1968). Mentre nella tragedia è implicata una “rottura” capace di confutare il grande Piano, in Polanski, al contrario, ogni scelta non fa che riconfermare l’attuazione ineluttabile di esso (l’urlo con cui si apre e si chiude L’inquilino del terzo piano,1976).
Di questa resa all’assurdo fa fede anche quella che sembra essere l’opera più “positiva” del regista, Il pianista (2002), dove l’apparente lieto fine viene messo in dubbio dalla morte, ingiusta, dell’ufficiale tedesco ( cioè del “buono” che salva la vita al protagonista, ma che in cambio di ciò non viene salvato a sua volta da Dio per la sua opera dettata da grande umanità, ma finisce barbaramente fucilato dai soldati sovietici “liberatori”).
Suscitare il dubbio, sempre e comunque, è il compito che Polanski si è impegnato a fare con il suo cinema e di questo dobbiamo essergli riconoscenti in un’epoca di ottuse certezze pubbliche e private.
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