È il mondo del cinema che mi interessa. Nel mezzo di una scena inventata da me c’è una citazione, un parallelo con una scena che ho già visto, può provenire indifferentemente dall’espressionismo tedesco o dal cinema sperimentale.“
Dario Argento
Dario Argento è noto in tutto il mondo come “il maestro del brivido” avendo dedicato tutta la sua carriera al genere thriller e horror. Il regista, sceneggiatore e produttore romano sin dai suoi primi film si concentra sulla suspense, trasfondendo nelle sue opere le proprie paure.
Proprio per questo viene considerato il capostipite del giallo all’italiana.
Ha l’arte nel sangue, Dario Argento.
Suo padre, Salvatore, era un funzionario della Unitalia Film; fu il produttore di tutti i suoi primi film, a partire da L’uccello dalle piume di cristallo fino a Tenebre.
Sua madre era una fotografa di moda brasiliana di origini italiane, Elda Luxardo. Dario da bambino amava trattenersi nello studio di sua madre.
Era affascinato dalle figure femminili, dalle lunghe sedute per il trucco, dalle tecniche d’illuminazione e dalla cura per il dettaglio. Tutti elementi che caratterizzeranno il suo cinema. Un cinema appassionato, poetico, fatto di una cura minuziosa per la tecnica.
Dario Argento nasce come critico cinematografico, mostrando il suo amore per i film di genere, in particolare western, thriller ,horror, fantascienza, in rottura con la critica ufficiale.
Prima di passare dietro la macchina da presa, collabora alla stesura di sceneggiature di diversi film di genere, tra cui Metti una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi, la commedia satirica di Alberto Sordi Scusi, lei è favorevole o contrario? e, soprattutto C’era una volta il West del quale scrive il soggetto insieme a Sergio Leone e Bernardo Bertolucci.
Loro saranno dei punti di riferimento fondamentali della sua carriera; ma è soprattutto grazie a suo padre che riesce a esordire.
Nel 1969 Salvatore Argento, insieme al figlio, crea una società di produzione: la S.E.D.A. Spettacoli. Inizia, così, il suo primo progetto da regista: L’uccello dalle piume di cristallo. Anche se, secondo alcune fonti, il suo esordio dietro la cinepresa è avvenuto sul set di Un esercito di cinque uomini (un film di cui firma la sceneggiatura nel 1969). Il maestro del brivido avrebbe supervisionato un team subentrato dopo il primo giorno di riprese a Don Taylor, ma ufficialmente la regia è stata attribuita al produttore Italo Zingarelli.
Non è così importante, in fondo, se la sua prima volta da regista è stata o meno con L’uccello dalle piume di cristallo. Quello che conta veramente è che questo film , basato sul romanzo consigliatogli da Bernardo Bertolucci La statua che urla di Fredric Brown, è un successo di critica e di pubblico. La pellicola fu definita dal critico cinematografico Roberto Pugliese come “un sasso nello stagno del cinema italiano” dell’epoca.
La sua opera prima contiene diversi elementi che verranno dal regista ripresi, sviluppati e dilatati nei film successivi e che contribuiranno a delineare il suo stile.

Sam Dalmas (Tony Musante), uno scrittore americano che si trova a Roma, assiste al tentativo di omicidio di Monica Ranieri (Eva Renzi), moglie di un gallerista d’arte. Il caso viene affidato al commissario Morosini (Enrico Maria Salerno) che è convinto che l’aggressore sia lo stesso che ha già ucciso tre donne nel giro di un mese. Risolvere il caso risulterà più complicato del previsto e il coinvolgimento di Sam sarà fondamentale per incastrare l’omicida.
Le riprese di sei settimane vennero effettuate a Roma e iniziarono nel settembre 1969. Già la scelta di ambientare il film nella capitale risultò insolita e in controtendenza rispetto alle consuetudini narrative dell’epoca. Il set fu ricco di contrasti, a partire da quello tra Argento e l’attore Tony Musante (che non gradiva il suo modo, talvolta improvvisato, nel dirigere il film) a quello con il distributore della Titanus, Goffredo Lombardo (scontento del materiale girato dopo appena una settimana di riprese e deciso ad affidare la prosecuzione del film al regista Ferdinando Baldi). Inoltre, ci furono tensioni dovute ai rischi continui di superare i costi di produzione e alle attenzioni costanti a non sprecare più pellicola di quella necessaria.
Rifacendosi tanto a Mario Bava (in specie, dei due gialli La ragazza che sapeva troppo del 1963 e Sei donne per l’assassino del 1964), quanto ad alcune intuizioni del western all’italiana, Dario Argento si ispira a ciò che più ama, ma non imita. Interpreta sapientemente gli elementi del cinema di genere assecondando, però, il suo gusto estetico. Così, le piume del suo uccello di cristallo si tingono di giallo e, con questo suo esordio, non solo mostra il suo talento da regista, ma dimostra di essere una voce fuori dal coro con le idee ben chiare.
La fotografia elegante e stilizzata fu una delle prime firmate da Vittorio Storaro.
La tonalità dei colori, le luci, le inquadrature, la fissazione per i dettagli, i rumori amplificati, la colonna sonora allucinante, la scarsità dei dialoghi, la presenza di sketch umoristici in stile hitchcockiano, il montaggio alternato…sono tutti elementi che ritroveremo in ogni film di Dario Argento. In particolare, le tecniche di ripresa, come lo stacco dal piano lungo al primo piano, l’uso di soggettive, primissimi piani su oggetti e occhi. Inoltre, già da questo film è evidente l’interesse per le psicopatologie e per la descrizione dettagliata delle azioni dell’assassino.
Impermeabile, cappello e guanti di pelle: ritratto di un assassino qualunque di Dario Argento
Quando nelle scene dei suoi film compaiono le mani dell’assassino (per esempio nella scena iniziale di Profondo rosso), è lo stesso regista a utilizzare le proprie mani in una sorta di cameo feticista.
La motivazione è che lo stesso Argento afferma di avere: “un’ottima manualità, penso di essere molto bravo a muovere le mani, per cui: scelgo sempre me stesso per quella parte”
Ne L’uccello dalle piume di cristallo è significativo il modo in cui Dario Argento si diverte a giocare con lo spirito di osservazione dello spettatore. Lo fa attraverso l’uso della soggettiva che diventa anche il falso punto di vista dell’assassino (che si ritrova improvvisamente in campo).
Parlando proprio dell’uso della soggettiva, è d’obbligo citare la scena della caduta dalla finestra di Alberto Ranieri, simile a quella girata da Antonio Pietrangeli nel suo capolavoro Io la conoscevo bene per riprendere il suicidio finale di Adriana.
Un’ultima curiosità riguardo al film: Reggie Nalder, nel film l’inseguitore col giubbetto giallo, è soprattutto noto per aver interpretato il ruolo di Rien ne L’uomo che sapeva troppo di Alfred Hitchcock, il killer assoldato per uccidere nel teatro il capo di Stato estero. Inizialmente non era previsto il suo contributo nel film: Argento gli propose il ruolo dopo averlo incontrato per caso a Roma, dove l’attore si trovava in quel periodo per partecipare a un telefilm americano che si girava in parte in Italia.
A seguito del successo del primo film, nel 1971 giungono in successione Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio.
Queste prime tre pellicole costituiscono la trilogia degli animali a causa dei titoli dei film accumunati dalla presenza di un riferimento zoologico. Sulla scia del successo delle sue opere, nacque un vero e proprio filone di film aventi degli animali nel titolo, come ad esempio; La tarantola dal ventre nero, Una farfalla con le ali insanguinate, Una lucertola con la pelle di donna, La coda dello scorpione e tanti altri.

Il gatto a nove code è un tradizionale poliziesco all’americana, una detective story.
Franco Arnò (Karl Malden), un enigmista cieco e Carlo Giordani (James Franciscus), un giornalista, uniscono le forze per risolvere una catena di omicidi misteriosi collegati all’Istituto Terzi, all’avanguardia sulle ricerche genetiche. Man mano che le indagini vanno avanti, chiunque è in grado di rivelare dettagli su quello che accade nell’istituto, viene assassinato. Il killer inizia a minacciare i due detective improvvisati pur di celare il proprio segreto.
Il secondo film di Dario Argento è, probabilmente, il più debole della trilogia. Ma, nonostante questo, in esso ci sono sequenze straordinarie che restano tra le migliori girate dal regista. Ad esempio, quella nel cimitero, uno dei momenti che svincolano dalla detective story, giocata sui tempi e sugli sguardi che regalano allo spettatore momenti ansiogeni unici. Degno di nota anche il ricorso insistito sul dettaglio della pupilla dilatata del killer, una sorta di controcanto alla cecità dell’enigmista. Inoltre, il film è ricco di citazioni tra cui quella del bicchiere di latte con cui si ammicca a Il sospetto di Alfred Hitchcock, di cui Argento all’epoca era ritenuto un discepolo.
Il giallo inizia a tingersi di rosso con Quattro mosche di velluto grigio.
Dario Argento sperimenta tecniche innovative per suscitare tensione emotiva e paura.
L’horror si mescola al genere giallo e affiorano elementi visionari e irrazionali più marcati rispetto agli altri due film. E’ la componente onirica a emergere in questa pellicola del maestro del brivido. La colonna sonora del film è firmata da Ennio Morricone, così come quella dei due film precedenti. Durante la lavorazione, però, ci furono dei contrasti tra i due che non lavorarono più insieme fino a La Sindrome di Stendhal.

Quattro mosche di velluto grigio vede come protagonista Roberto Tobias (Michael Brandon), un musicista che da qualche tempo è vittima di pedinamento. Una sera, trovandosi faccia a faccia con il suo misterioso persecutore, lo affronta. Durante la colluttazione lo pugnala a morte. Qualcuno, però, ha assistito alla scena e ha fotografato Tobias. Il musicista, terrorizzato, si confida con la moglie Nina (Mimsy Farmer) e con un amico filosofo detto “Dio” (un fantastico Bud Spencer) che lo indirizza a un investigatore privato.
Il film, nel descrivere il menage fra Roberto e Nina, contiene alcuni riferimenti autobiografici. Lo stesso Michael Brandon fu scelto dal regista perché gli somigliava vagamente, come pure Mimsy Farmer, scelta per il ruolo della moglie del protagonista dopo aver repentinamente scartato altre attrici candidate al ruolo di Nina Tobias, assomigliava all’ex moglie di Dario Argento.
Nel suo terzo film il maestro del brivido si diverte a osare.
Utilizza una macchina da presa proveniente dall’università di Lipsia, la Pentazet, per riprendere una delle sequenze più memorabili della pellicola: quella del proiettile che esce dalla pistola girata a 18.000 fotogrammi al secondo. Per non parlare di quella dell’incidente finale realizzata a 36.000 fotogrammi al secondo. Sicuramente, Quattro mosche di velluto grigio viene ricordato per la sequenza onirica della decapitazione, ogni volta condotta un passo più avanti, come il flashback di Armonica in C’era una volta il West.
Dopo il successo della trilogia, la RAI propone a Dario Argento di produrre e curare una serie tv di quattro film chiamata La porta sul buio trasmessa su raiuno nel 1973.
Il regista dirige, con lo pseudonimo di Sirio Bernadotte, l’episodio Il tram ricavato da una sequenza eliminata dalla sceneggiatura originale de L’uccello dalle piume di cristallo.
Questo episodio televisivo ricalca lo stile dei suoi film (inquadrature ricercate, soggettive, dettagli, il particolare rivelatore), ma il giallo presenta un marcato umorismo di fondo e viene risolto da un poliziotto.
Dopo una parentesi storica, il film Le cinque giornate con Adriano Celentano, Dario Argento dirige il suo capolavoro: Profondo Rosso.
Questo cult amalgama perfettamente elementi onirici, fantastici, horror e thriller. Gli indizi per risolvere il caso sono a vista: non c’è trucco, non c’é inganno. Il talento del regista sta nel riuscire ad alterare la percezione degli indizi; nell’azzardo. Il più grande? Mostrare a inizio film il volto dell’assassino sovrapponendolo a quelli deformi raffigurati su un quadro, che si riflette sulla superficie di uno specchio. Scacco matto per Dario Argento che firma e dirige il suo più grande successo mondiale.

La trama è semplice: Marc (David Hemmings) è un giovane pianista. Assiste all’assassinio di una parapsicologa, ma non riesce a vedere il volto dell’omicida. Mentre indaga aiutato da una bella giornalista (Daria Nicolodi), le persone con cui viene in contatto cominciano a essere assassinate una dopo l’altra. Profondo rosso segna la linea di confine tra l’iniziale fase thriller di Dario Argento e quella più marcatamente horror che ne sarebbe seguita.
Un po’ di curiosità su Profondo Rosso… ll film è formalmente ambientato a Roma e dintorni, ma le scene esterne sono state girate in prevalenza a Torino, alcune a Roma e Perugia: la scelta di girare in luoghi di città diverse è da ricercarsi nella volontà dichiarata da Dario Argento di ambientare la pellicola in una città immaginaria, al fine di disorientare la percezione geografica e spaziale dello spettatore.
E’ sul set del film che la relazione tra il regista e Daria Nicolodi si consolida. L’attrice afferma che nel personaggio da lei interpretato nel film c’è molto del suo vero carattere e anche molto del giovane Dario Argento quando faceva il giornalista.
La famosa colonna sonora del film, composta ed eseguita dal gruppo rock progressive Goblin, integrata da musiche jazz-rock di Giorgio Gaslini, fu scelta da Argento come ripiego. Il regista, infatti, avrebbe voluto addirittura i Pink Floyd per comporla. Il gruppo declinò gentilmente l’invito, perché troppo impegnato nella composizione del nuovo album Wish You Were Here, quindi la produzione si rivolse a Gaslini, che aveva già lavorato con Argento ne Le cinque giornate. Tuttavia, Argento sentiva che la musica di Gaslini non andava bene per il film e che occorreva qualcosa di più moderno.
Il regista si rivolse all’editore che all’epoca si occupava delle colonne sonore dei suoi film, ovvero Carlo Bixio che gli fece invece ascoltare un demo intitolato Cherry Five, opera di un ancora sconosciuto complesso romano: i Goblin. Intrigato dall’ascolto del nastro, il regista contattò il gruppo, che accettò volentieri l’offerta. Il tema principale del film riscosse molto successo anche in termini di vendite, riuscendo addirittura ad arrivare alla prima posizione della classifica dei 45 giri più venduti in Italia di quel periodo.
Il ritorno al genere thriller di Dario Argento avviene nel 1982 con Tenebre. Il regista ha rivelato che la genesi del film è stata influenzata da uno spiacevole incidente accadutogli nel 1980 quando venne molestato da un fan ossessivo. L’ammiratore lo perseguitava telefonandogli di continuo, giorno dopo giorno, fino a quando gli confessò di volerlo uccidere. Anche se la minaccia si dimostrò infondata, Argento trovò l’esperienza che gli era capitata terrificante e scrisse Tenebre come risultato delle sue paure.

Il protagonista del film è l’americano Peter Neal (Anthony Franciosa). L’uomo si trova al centro di una serie di efferati delitti che traggono spunto dal suo best seller. Il capitano Germani (Giuliano Gemma) chiede il suo aiuto per mettere fine a quella spirale di sangue che finisce per stringersi intorno allo stesso scrittore, considerato dall’assassino come il “grande corruttore”. Da un punto di vista tecnico, Tenebre è indubbiamente una delle opere di Dario Argento più singolari e complesse. E’ evidente il suo cambiamento brusco rispetto ai suoi primi gialli, con uno sguardo al contemporaneo e al lavoro dei suoi colleghi americani.
A dispetto del suo titolo, il regista diede disposizione al direttore della fotografia Luciano Tovoli (con cui aveva collaborato in “Suspiria”) di girare le scene di Tenebre con la maggiore luce possibile. Molte delle sequenza del film sono ambientate di giorno o in interni fortemente illuminati. Il regista spiegò che stava adottando: “… uno stile di fotografia moderno, discostandomi deliberatamente dalle atmosfere scure e cupe della tradizione del cinema espressionista tedesco a cui l’horror si era sempre rifatto“.
Argento ha anche rilevato che il film di Andrzej Żuławski Possession (1981) aveva influenzato la sua decisione per la fotografia di Tenebre.
Nella carriera di Dario Argento, Tenebre rappresenta il canto del cigno di un determinato modo di intendere il giallo. Il regista spaventa lo spettatore con l’utilizzo della cinepresa, con la sua sapiente tecnica di scaturire terrore e suspance con inquadrature e movimenti di macchina.
Da Phenomena in poi, il genere horror si infiltrerà nel genere giallo andando a trasformare la ricetta del thriller argentiano. Questo accade sia in Opera (1987) che in Trauma (1993) che può essere considerato come una sorta di remake americano di Profondo Rosso.

Ma è La sindrome di Stendhal (1996) che si può considerare l’ ultimo film più riuscito di Dario Argento. In questa pellicola tratta il tema del doppio mostrando la relazione tra vittima e carnefice attraverso un sovrapporsi di immagini e personaggi. In questa trama non ci sono enigmi da risolvere o killer nell’ombra, ma è la sindrome di Stendhal a essere la vera protagonista. Una poliziotta di squadra antistupro (Asia Argento) resta sconvolta dai quadri esposti e sviene. La soccorre un giovane (Thomas Kretschmann) che si rivela essere proprio lo psicopatico sul quale stava indagando.
Il film si apre con una sequenza folgorante e vanta un equilibrio tra struttura narrativa e disegno dei personaggi. Ottimo il lavoro dal punto di vista tecnico, sui cui spicca quello di Sergio Stivaletti con i suoi magnifici effetti speciali. Infatti, la pellicola è ricca di scene forti come baci al sangue o un proiettile che oltrepassa una vittima da guancia a guancia. A differenza di quasi tutti i lavori di Dario Argento, in La sindrome di Stendhal vediamo in volto il responsabile degli omicidi, pur essendo presente un’altra sorpresa finale. Di sorprese, purtroppo, nei film successivi non ce ne sono più state.

I thriller/gialli seguiti a La sindrome di Stendhal sono un minestrone di cliché di genere e dello stesso Dario Argento. Parliamo di film come Il cartaio, Non ho sonno e Giallo, qualitativamente lontani da quelli che hanno reso celebre il regista romano e che sembrano destinati più allo schermo televisivo che a quello cinematografico.
Nel 2022 è prevista l’uscita della suo ultima fatica: Occhiali neri, la storia di una prostituta cieca (Ilenia Pastorelli) costretta a scappare da un assassino. Speriamo di non dover scappare anche noi dalla sala, confidando nel ritorno del Maestro del brivido.
[…] di Urbino. Ha lavorato con registi del calibro di Bertolucci, Coppola, Allen, Argento, Saura, Beatty e Ronconi, spaziando tra cinema, televisione e teatro , creando immagini uniche e di […]