Si rallegrino i fan di Jim Jarmusch, regista culto del cinema indipendente americano: dal 6 agosto sono di nuovo al cinema in versione restaurata altri due suoi vecchi lavori, scanzonati e deliziosamente interpretati, in uno squisito bianco e nero d’autore. Entrambi si pongono al di fuori dalle logiche pop commerciali, e si muovono – soprattutto il secondo – in equilibrio su quell’instabile linea che separa il far gridare alla perfezione dal risultare, per qualcuno, segretamente, sottilmente, delicatamente indigesto. Vediamo come.
DAUNBAILÒ, 1986
In uno di quegli scherzosi esercizi di iperconcisione sempre di moda, Daunbailò si riassumerebbe così: “Tre uomini finiscono in prigione, ne evadono e poi si separano”, e non sarebbe una definizione troppo carente (non un giudizio negativo, questo).
L’allegro film, realizzato da Jarmusch dopo Stranger than Paradise, è cucito addosso all’aria poltrona e alla voce cantastorie di Tom Waits, all’allure criminale spilungona, gesticolante e beneducata di John Lurie, anche lui musicista, e all’estro comico di Benigni, che proprio non ce la fa a non recitare ogni battuta urlando. Lo si perdona, beninteso, sebbene citi erroneamente Walt Whitman; tanto nessuno se ne accorge, ed è poetico lo stesso.
In questa favola un po’ nera e un po’ bianca (“È un mondo triste e bellissimo!” – così si presenta l’esuberante turista toscano), i primi due personaggi sono criminali veri finiti a condividere la cella proprio quando non facevano niente di male; il terzo, aggiuntosi dopo, all’inverso è un brav’uomo, ma killer per caso e per sbaglio. Proprio grazie a lui il trio fugge e sopravvive nei boschi (topos che ritornerà in Dead Man dello stesso regista, anch’esso attualmente di ritorno in sala), si mette in salvo e raggiunge le condizioni per sparire, ognuno nella propria direzione. Che per Roberto significa trovare moglie, anche letteralmente: come resistere a un’accogliente femmina in sottoveste – Nicoletta Braschi, ovviamente – che per di più ti mette in tavola un panettone?
Per gli spettatori italiani, il rischio paventato in apertura – quello del lieve e serpeggiante senso di inappagamento associabile secondo alcuni a certe opere di Jarmusch, tanto quanto l’indubbio talento registico – si assorbe e si esaurisce nella scelta di produzione di tradurre il titolo originale Down by law in quel Daunbailò dal guizzo di mala pronuncia, di simpatia sgangherata a tutti i costi. Questa premessa è debita poiché, nella cinematografia del regista, il “fattore Jarmusch” è un elemento che può indisporre i meno propensi ad aderire alla sua poetica referenziale e autoreferenziale. Nei suoi film, chi è prettamente alla ricerca di un senso o almeno di un paio di punti fermi (esercizio limitante, certamente) rischia spesso di restare deluso.
Qui però un tale pericolo è scongiurato. A conquistare il pubblico ci pensano prima di tutto i tre attori, assortiti talmente bene (o male, che è lo stesso) da aver bisogno di fare ben poco, oltre a stare in scena, per tenerci inchiodati alla poltroncina. La regia colpisce soprattutto per il suo lavoro sulla semplificazione – rimozione minimalista di qualunque approfondimento visivo e di trama – e sulla lateralità. Le carrellate iniziali avanti e indietro lungo le strade degradate della Louisiana e lungo il fiume; le scene orizzontali; la stessa disposizione dei tre nello spazio dell’inquadratura, sempre perfetta: tutto questo è magnifico.
Daunbailò quindi, nonostante l’atto di fede necessario per scegliere la visione di un titolo non immediatamente comprensibile, è un bel film che a chi non lo conosce piacerà, perché possiede quel dono prezioso che fa la differenza: l’universalità.
COFFEE & CIGARETTES, 2003
Coffee & Cigarettes, più che un lungometraggio, è una stringa di cortometraggi, un quilt a scacchiera cucito insieme unendo i fili di diversi tempi e luoghi.
In origine c’era infatti uno sketch del 1986 con protagonisti Benigni e Steven Wright, un dialoghetto surreale a due a tema nicotina e soprattutto caffeina, nel quale il Roberto nazionale finiva per decidere di recarsi a un appuntamento dal dentista al posto dell’altro, più riluttante.
È con uno sketch successivo (1993), un dialogo tra i due mostri sacri Iggy Pop (che rifarà compagnia a Jarmusch in Dead Man) e, anche qui, Tom Waits, e con il premio a Cannes lo stesso anno per il miglior cortometraggio, che l’autore si convince a fare (un po’ più) sul serio e a creare materiale ulteriore, da infilare nella stessa cornice e da spedire nelle sale in futuro.
Nel 2003 escono dunque 11 episodi riuniti, scenette orbitanti intorno ad altrettanti tavolini di bar, colmi di tazze e di posaceneri, di parole e di pause sceniche. In ciascuno c’è un malinteso di fondo, un errore di comunicazione, uno scarto logico; compaiono la fama ma anche la leggerezza, lo scherzo, la rivendicazione di disimpegno e di divertissement mentre si predica sui mali del tabacco e del troppo caffè, o al contrario li si osanna come elementi aggreganti.
Gli uncini che agganciano gli episodi tra loro sono frasi o temi ricorrenti, nonché la stessa appartenenza di quasi tutti i personaggi all’universo della creazione artistica, video o musicale che sia: come una grande Cate Blanchett che in un doppio ruolo interpreta una versione edulcorata di se stessa ma anche di una sua cugina problematica, o come Alfred Molina e Steve Coogan, i quali scoprono di avere proprio lo stesso legame di parentela.
Purtroppo non tutti gli episodi hanno lo stesso magnetismo. Alcuni sono perfetti e si ringrazia; altri restituiscono un briciolo di legittimità a chi vorrebbe trarre a tutti i costi un perché dall’operazione e ne esce frustrato. Se si abbandona questa pretesa, e ci si lascia affascinare dal metacinema proprio come si gusterebbero i contenuti speciali di un DVD, la pellicola dà molta soddisfazione. Steve Buscemi, i White Stripes (con un fantastico dialogo su Tesla), Bill Murray e compagnia bella ne risultano iconici proprio come le plongée dallo zenith sui tavolini del bar, rigorosamente in bianco e nero come i colori del caffè, del fumo e di tutto il film. In questo senso Coffee & Cigarettes conquista: tenendo ben presente quel che è.
Peccato, infine, per il doppiaggio: un’opera composta di tali personalità avrebbe meritato di tornare in sala in lingua originale con sottotitoli. Ma arriverà il momento in cui saremo pronti, basta confidare.