Aspettare. Un soldato passa la vita ad aspettare e i soldati che Loup Bureau ha ripreso nel suo documentario Tranchées, sono quelli dell’ultima guerra del continente europeo, quella tra Ucraina ed i separatisti che la Russia finanzia senza indugio da anni.

Lo scontro bellico ha molti volti diversi. Il cinema ha sovente cercato di insistere sull’aspetto più “pirotecnico” di tale realtà, sul caos di proiettili e morte, creando nei decenni la declinazione estetica di un bisogno mai sopito di grandiosità, insomma di spettacolo.
La realtà? Molto diversa. La guerra è fatta di brevi pause di terrore in un mare di orribile noia, di pensieri ripetitivi, di spazi angusti e paure ferali. Ma soprattutto è fatta di attesa, quella snervante, che martella le meningi, che rende la psiche una fabbrica del tormento, ma soprattutto per un buco nero esistenziale, in cui l’individuo perde coscienza di sé.

Siamo vicino a Lugansk, dove nella Seconda Guerra Mondiale i carri tedeschi e sovietici si fecero a pezzi più di una volta, siamo nella regione del Donbas, nel 2015, quando era chiaro ormai a tutti che su quel terreno, stare allo scoperto era un suicidio. Artiglieria, mortai, aerei ed elicotteri, non lo permettono. Cento anni dopo Ypres, il Carso e Tannenberg, altri uomini finiscono a scavare dentro la terra, a cercare in essa rifugio e riparo, a creare piccole città in cui proteggere oltre la propria vita una traccia di umanità.

Tranchées è adornato da un sublime bianco e nero, che rende ancora più l’insieme simile a certi cinegiornali o reperti video sul conflitto che distrusse la Belle Époque.
Se non fosse per le armi moderne, i tatuaggi e i pc dentro i camminamenti, si penserebbe di essere ancora al tempo in cui Cadorna ed Haig mandavano a morire migliaia di uomini con un cenno.

Questi ragazzi, questi militari, sono come erano i loro nonni e bisnonni, sono pedine nelle fauci della storia, sono lo strumento attraverso il quale, come diceva Kubrick, “i grandi condottieri ed i Re, hanno fatto il loro feroce lavoro nel mondo”.
Ognuno di loro ha una storia diversa, ognuno è assediato dalla paura, di morire, così come di tornare alla vita di prima senza più essere la persona di prima.

La trincea è il buco nero del loro passato, è dove trovano protezione dai proiettili lanciati da un nemico invisibile eppure mortale, dove confidano a persone mai viste prima i propri segreti più reconditi.
Esiste la paura di morire, la paura di avere paura, esiste il passato sfumato dai ricordi ed il presente di uomini e donne soli, lì su quelle pianure contese da est ed ovest da secoli.
Il pensiero vola alla “baita” di Stern, ai disperati di Lussu, ai morti viventi descritti da Remarque.

La prima parte è un concentrato di ciò che è la guerra in realtà: osservare, aspettare, valutare, cucinare qualcosa per restare umani, nascondersi, lavorare di pala, prendersi cura l’uno dell’altro.
Esiste l’amicizia e poi esiste l’amicizia in guerra, perché “in guerra abbiamo anche cantato” spiegava il Sergente Stern tanti anni fa e “l’amicizia fatta in guerra dura per tutta la vita”.
Più di amicizia, Tranchées ci parla, come faceva Jarhead di Anthony Swofford, dell’inevitabilità di una comunione tra paria, tra chi torna a casa e non è più ciò che era prima, ammesso che fosse qualcosa.

L’ultima parte di Tranchées, quella del ritorno alla vita “civile”, è a colori, ma sono colori che non contengono un riscatto fatto di pace interiore e ripresa.
Un reduce è solo tra gli uomini, è solo con ciò che ha imparato. Qualsiasi cosa faccia, come scrisse Swofford, che sia amare una donna, cambiare un pannolino, bere una birra o costruire uno steccato, le sue mani e il suo cuore, ricorderanno il fucile e come si usa.
Sono a Minsk e Odessa quei ragazzi tornati incolumi, chiusi in bar e pub assordanti, ma è solo apparenza. Loro sono e saranno sempre in quella trincea, prigionieri di nemici senza volto, di una paura senza nome, grazie aTranchées per un po’ ci siamo stati anche noi spettatori e la guerra è davvero senza colori.