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È quasi d’obbligo che ogni festival cinematografico abbia il suo film incognita, quello che per motivi, spesso negativi, provoca talmente tanti quesiti da arrivare a chiedersi perché sia stato inserito in concorso.
Alla 75° edizione della Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia, questo onore è tutti per The Mountain di Rick Alverson.

Nell’America degli anni ’50, Andy, la cui madre aveva sofferto di seri disturbi psichici, si ritrova presto anche orfano del dispotico padre che l’aveva cresciuto controvoglia. Quando l’amico del defunto genitore, il dott. Wallace Fiennes, gli propone di lavorare per lui come fotografo, il ragazzo accetta, iniziando un viaggio che lo condurrà negli ospedali di cura del Paese per documentare gli interventi di lobotomia eseguiti dall’eccentrico medico.

Che Alveron volesse mostrare un altro aspetto dell’America perbenista degli anni 50’ è chiaro fin dalle primissime scene, ma soprattutto dalla scelta di una fotografia dai toni spenti che uniforma e sterilizza qualunque ambiente, dal più solitario al più tristemente frequentato.
Di quel florido decennio, in fondo, a dominare nell’immaginario comune sono i toni pastello, le famiglie così perfette da sembrare irreali, le esemplari (e sottomesse) donne di casa e gli instancabili uomini d’affari; ogni possibile anomalia risultava accettabile fin tanto riuscisse a rimanere nell’ombra.

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Portare sullo schermo una delle pratiche più barbare del XX secolo poteva essere senza dubbio un efficace modo per enfatizzare gli errori del passato e porre l’attenzione dello spettatore sul presente, sulla sua incapacità critica, ma l’estrema scelta stilistica di utilizzare campi medi e riprese fisse, poche volte intervallate da primi piani, che fanno sembrare ogni inquadratura una foto da poter rimirare nel tempo, appesantiscono il procedere di una storia che fatica e alla fine proprio non riesce a farsi sentire.
Quello del dottor Fiennes ed Andy è un viaggio verso un’ottusità dilagante, durante il quale lo sguardo dell’autore, anziché scavare nel passato dei pazienti condannati all’oblio mentale o portare alla luce le ragioni di una pena così terribile, rimane relegato su di un confine, inerme e disilluso. Anche la vicenda del protagonista Andy si muove in spazi e tempi a noi spesso sconosciuti nei quali si palesa l’insaziabile ricerca di un’interezza data dall’incontro e dall’accettazione dell’altro, che proprio compiendosi estirpa anche la più flebile speranza di riscatto.

La buona prova di Tye Sheridan e Jeff Goldblum, è pressoché azzerata da una sceneggiatura senza una vera direzione: se lo scopo è, presumibilmente, interrogare il pubblico sulla vera natura e manifestazione delle malattie mentali, la realizzazione manca, paradossalmente, di quella stessa umanità tanto criticata da Alverson.

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