Cinque anni. Sono passati ben cinque anni da quando il regista svedese Roy Andersson ha vinto il Leone d’Oro per il suo Un Piccione seduto su un Ramo riflette sull’Esistenza (ultimo capitolo di una trilogia dedicata all’essere umano comprendente anche You, the living e Songs from the second Floor). Grandi aspettative, dunque, ha sollevato l’annuncio della selezione, all’interno del concorso in questa 76° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, di About Endlessness, sua ultima fatica, le cui riprese sono iniziate ben due anni fa.

Aspettative alte, per un lungometraggio in pieno stile anderssoniano, con la sua estetica curata sin nel minimo dettaglio e, come di consueto, una (non troppo) velata critica alla società in cui viviamo, con tanto di gradito tocco di ironia tutto nordeuropeo. Basterà tutto ciò a far sì che il presente About Endlessness possa rivelarsi all’altezza del suo ultimo lavoro? La risposta è sin troppo complessa per essere liquidata semplicemente con un sì o con un no.

About endlessness. Roy AndressonCon una serie di quadri mostranti la quotidianità di alcuni personaggi nella fredda città di Stoccolma – curatissime immagini a camera rigorosamente fissa dalla forte impronta hopperiana in cui, oltre a una fotografia fortemente virata al blu, ciò che maggiormente ci colpisce è una ricercata profondità di campo e una composizione complessiva rigorosissima e studiata al dettaglio – About Endlessness si distingue sostanzialmente dal precedente lavoro dell’autore (e, più in generale, dalla sua intera trilogia), in quanto pur presentando momenti di “debolezza” dei suoi personaggi, più che una critica, vuol realizzare una sorta di ode alla vita, mostrandoci i momenti più disparati dell’esistenza (dalla scena esilarante di un prete che ha perso la fede, al padre che, sotto il diluvio, si china ad allacciare la scarpa della figlia per poi accompagnarla a un compleanno, fino al dramma esistenziale di un dentista alle prese con un cliente pauroso all’approssimarsi delle feste natalizie), senza aver paura di inserire al proprio interno anche scene terribili come può essere il momento ambientato nel bunker di Hitler alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma sta bene. Di fatto, anche questo fa parte della vita. E, alla fine dei giochi, a chi è dato di salvarsi?

La risposta arriva, in realtà, già dalla prima inquadratura, quando vediamo una coppia di amanti – perfetta ricostruzione del dipinto Sulla Città di Marc Chagall (1914 – 1918) – fluttuare in cielo, per poi ritornare – verso la metà del lungometraggio – atti a volare su di una città precedentemente distrutta dalla guerra. Sono, essi, i portatori di un amore puro, liberi, ormai, da ogni qualsivoglia tormento terreno, da ogni qualsivoglia debolezza. Proprio come accade con i protagonisti della scena in cui, prima di un battesimo, un neonato, in braccio al papà, viene fotografato ripetutamente dalla nonna orgogliosa o in cui alcune ragazze adolescenti sono intente a ballare davanti a un caffè. Sono momenti, questi, anticipatori di quella libertà precedentemente descritta. Momenti in cui la caratteristica fotografia virata al blu assume lievemente i toni del rosa e in cui i protagonisti stessi sono mossi dai sentimenti più semplici e più puri.

Roy Andersson, dal canto suo, si è ancora una volta rivelato quell’autore attento e perfezionista che ci ha folgorato soltanto recentemente (non dimentichiamo che lo stesso ha raggiunto la notorietà internazionale solo con la suddetta trilogia, dopo due lungometraggi realizzati negli anni Settanta e tanta, tanta esperienza nell’ambito della pubblicità). Quell’autore follemente innamorato della storia dell’arte – e, più in generale, del Bello – attento al minimo dettaglio e perfettamente in grado di muovere critiche senza risultare mai giudicante, così come di dichiarare tutto il proprio amore all’essere umano stesso, con tutti i suoi difetti e tutte le sue debolezze. Già, perché, di fatto, il presente About Endlessness altro non è che una vera e propria dichiarazione d’amore al genere umano, ulteriormente enfatizzata dalla voce fuori campo di una sorta di dea amorevole e indulgente, atta a descrivere con un’unica frase, quadro per quadro, l’umanità di volta in volta rappresentata.

Un film, il presente, molto più raffinato e sottile di quanto possa inizialmente sembrare. E, allo stesso tempo, un film che, malgrado tutto, a causa di una (giustificata?) chiusura un po’ troppo repentina (unica grande pecca dell’intero lavoro), lascia lo spettatore con un insolito senso di incompiutezza. Un senso di incompiutezza dovuto alla necessità di sviluppare al meglio determinate situazioni, di trovare una chiusura ancora più d’effetto. Ma anche – e soprattutto – un senso di incompiutezza dovuto proprio dal fatto che, alla fine dei giochi, entriamo a tal punto dentro l’intero lavoro che ne vorremmo sempre di più.