Brad Pitt è Cogan e uccide con l’arido, glaciale colpo di fucile che arriva a distanza tutt’altro che ravvicinata: (he) Kills you softly. Un sicario? Un aguzzino su commissione della mafia di New Orleans? No, è semplicemente il freddo e ruvido killer che preme il grilletto senza guardare negli occhi, colpendo dritto in petto.Cogan locandina

Andrew Dominik, già padre d’interessanti pellicole come Chopper(2000) e L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (2007), regala nel 2012 un grandioso film statunitense che penetra gli stessi luoghi dell’ambientazione spargendo sulla pellicola i colori della crisi economica e della svolta elettorale americana dell’era “Yes, we can!”. Il risultato è la narrazione dilatata e coinvolgente dei momenti della rapina a una bisca clandestina, ad opera dei vistosamente tossicodipendenti Frankie e Russell, (Scoot McNairy e Ben Mendelsohn), due ansiogeni giovani signori in cerca di contante facile: pianificazione, svolgimento e conseguenze di un brutto affare.

Jekie Cogan è un personaggio dalla psicologia appena accennata, ma perfettamente intuibile attraverso le sue movenze e gli atteggiamenti: non necessita di alcun cenno autobiografico o giustificazione narrativa per camminare tra i bassifondi e le cosche di New Orleans ed intrecciare la propria vita di killer con gli sprovveduti rapinatori della bisca e la mala  organizzata per cui lavora, alla quale sta particolarmente  a cuore anche l’organizzazione del gioco d’azzardo in città. Brad Pitt indossa magistralmente la giacca di pelle di Jekie e ne imbraccia il fucile a pompa, preme il grilletto e l’obbiettivo percorre languidamente tutta la superficie liscia dell’arma fumante, freddando il colpevole, presunto o reale, dell’affronto alla lobby criminale.

Non ci soffermeremo ulteriormente su ciò che oggi si tende a chiamare “story-line”, né sulle impeccabili interpretazioni di Ray Liotta e di James Gandolfini, né tantomeno su chi veste i panni del biscazziere Markie Tattmann e chi invece sarà il mercenario Mickey, atterrato direttamente da New York. Riteniamo dunque che la trama di Cogan vada assorbita lentamente come se fosse una dose quasi letale di eroina che comincia a scorrere nelle vene durante la visione, trasformando la poltrona in una dolce culla oscillante posta innanzi alle immagini di lavanderie pubbliche, cocktail superalcolici, ronzanti automobili anni Settanta e berline metallizzate in attesa sotto i piloni del ponte.

In questo particolarissimo film non ci sono protagonisti, personaggi principali, buoni o cattivi. La stessa storia, priva di narratore, risulta praticamente evanescente: Dominik né filma né racconta, apre semplicemente l’otturatore che riprende ciò che con ogni probabilità potrebbe accadere in questo momento sotto i tramonti color ardesia degli Stati Uniti d’America, trascinando la pellicola fin dietro agli angoli dei pestaggi di periferia, calando la telecamera dall’alto per insinuarsi negli oscuri vicoli dei denti rotti. Del tutto lontano dalla realizzazione di un documentario, il regista neozelandese muove i propri mezzi cinematografici con tanta naturalezza da annullare i consueti confini dello schermo; si ha l’eterna impressione che il film possa terminare da un momento all’altro con la semplice interruzione delle riprese, spente da un improvviso sparo che concede il buio eterno e i titoli di coda.

Il sottile gioco di fotogrammi è accompagnato da una soundtrack incredibilmente calzante, che spazia da Johnny Cash ai Velvet Underground, passando per i motivi musicali che hanno reso famosa la Louisiana, tutto perfettamente fuso coi degradanti cartelloni elettorali  e le scrostate immagini che scorrono morbide…

Un film dai contorni sfumati sui toni del rosso del sangue e del “noir” della morte, spalmato per 97 minuti sulla pellicola, i cui dialoghi non sono mai superflui e le battute, puntualissime, non stridono mai. Un film che non sente odore di premi, ma di inequivocabile  respiro pulp.

Vedi Cogan e poi muori, delicatamente.