Dalla sfolgorante epifania dei giubbotti di pelle da biker nel deserto ai dissennati chitarristi con lanciafiamme, la saga di Mad Max è stata un inesauribile crogiolo di idee che, evolvendo dal punk post-apocalittico a quello post-atomico e post-umano in un rilancio costante del folle immaginario, hanno fertilizzato la cultura pop per quasi quarant’anni. Dopo l’eccezionale rinnovamento di quell’estetica (a cui corrispondeva una forma filmica capace di far fare un balzo quantico anche al linguaggio del cinema d’azione) operato nel 2015 da Fury Road, con Furiosa: A Mad Max Saga il regista (ottantenne solo all’anagrafe) George Miller era chiamato a rispettare quel dettame che sembra vigere nella serie (e proferito anche in quest’ultima incarnazione), ovvero “più grande, più veloce, più forte”.
Forse anche per la sua natura di prequel, però, la pellicola sull’eroina dal braccio meccanico più che un’ennesima evoluzione si rivela essere un ponte tra la prima trilogia e la nuova incarnazione.
Ritornano per l’appunto le squilibrate bande di biker in tuta di pelle, ora sotto il comando dello psicotico Dementus (un Chris Hemsworth in parte, ma che non eccelle), i quali uccidono una donna rapendone la figlia per farsi indicare la posizione dell’ultimo luogo fertile da dove sembrano provenire. Cresciuta tra i Figli di Guerra dopo esser stata venduta a Immortan Joe, Furiosa (ottima la scelta degli occhi penetranti di Anya Taylor-Joy, dopo quelli della Theron, per un personaggio che per lo più dialoga con lo sguardo) tenterà di sopravvivere con la promessa di ottenere la sua vendetta.
Se Fury Road aveva fatto della distopia post-umana (gravida di rivendicazioni femministe, critiche al capitalismo e al suo cannibalismo anche ambientale) il substrato su cui inscenare una tanto nevrotica quanto magniloquente esibizione della rinnovata potenza cinematica del medium, Furiosa più tradizionalmente ristabilisce le gerarchie costruendo una narrazione perfettamente ascrivibile a un viaggio dell’eroe in cui emerge tutta la didascalicità della battaglia contro il patriarcato della protagonista (Dementus “padre” padrone da annientare).
Proprio la rinnovata presenza di una narratività tanto preponderante (e se vogliamo fanciullesca) sembra un passo indietro (o, come si è detto, di congiunzione tra i due archi narrativi) rispetto a quell’attrazione esperienziale per le immagini funamboliche del primo capitolo (che rimandava alla magia del puro cinetismo del cinema delle origini). In Furiosa la macchina da presa – che comunque non lascia che l’azione si consumi all’interno dell’inquadratura, ma che si lancia come un ottovolante, frenetica come le rombanti motociclette di Dementus, a precedere o inseguire il movimento – è resa protagonista per lo più solamente dell’incredibile agguato a Bullet Farm (scena atta, da sola, a scrivere un nuovo capitolo del cinema d’azione), mentre altrove mostra un’intrusività maggiore degli effetti speciali digitali.
Ancora incredibilmente immaginifico dopo più di quarant’anni, invece, il worldbuilding paleo-futuristico di George Miller si espande geograficamente e introduce nuovi clan, richiamando suggestivamente con Dementus e la sua banda di forsennati persino il mondo epico classico. Con la fantasia di cui il regista australiano é dotato (e come lui attualmente solo pochi altri, tra i quali Cameron, capaci di creare universi non derivativi), il brutale patrigno di Furiosa sembra quasi un uomo rinascimentale post-atomico che, guidando una biga trainata da motociclette e accompagnato da un dotto maestro (una delle più affascinanti aggiunte), si ispira ai modelli antichi escogitando l’inganno del cavallo di Troia, impartendo il supplizio toccato al corpo di Ettore e spedendo la protagonista in una ripugnante catabasi.
La volontà di non ripetersi (o forse la consapevolezza di non riuscire a farlo rinnovando per l’ennesima volta un mondo già così ricco) è croce e delizia di Furiosa: A Mad Max Saga. George Miller sembra comunque non poter trattenere l’immaginazione, paradossalmente e coraggiosamente cambia marcia (è proprio il caso di dire) alla nuova epopea, ma riesce a stupire come non mai in quel confronto finale che sembra custodire un po’ di quell’incanto per le storie portato sul grande schermo nel sottovalutatissimo Tremila anni di attesa.