L’apocalisse morale ancora una volta incombe sul cielo della capitale e al tempo stesso il poliziottesco prepotentemente si prende il suo spazio all’ottantesima edizione della Mostra del cinema di Venezia; parliamo di Adagio, l’ultima pellicola di Stefano Sollima.
A otto anni da Suburra, la Roma inquadrata da Sollima non è cambiata, è ancora un agonizzante ed enorme ganglio di luci e persone, di ombre e sparatorie. Continui black-out e caldo asfissiante sono il presagio che l’inferno sta per arrivare, all’orizzonte fiamme e fumo. Piove cenere.
Nell’afa della capitale incontriamo Manuel, pizzicato dai carabinieri e costretto a introdursi ad una festa esclusiva per incastrare un politico con il vizio della droga e dei minorenni.
Preso dal panico, il giovane cerca aiuto da un vecchio amico del padre. Il losco passato del genitore riaffiora come mostro marino. Il tempo per Daytona, Pol Niuman e il Cammello è passato, sono invecchiati, malati e stanchi: morti che camminano. Vivono ai margini di Roma e l’unica cosa ancora viva in loro è il rancore.
L’universo di Sollima è oscuro, una realtà dove potere e prepotenza si confondono, quelli che dovrebbero essere i buoni combattono con le stesse armi del male, nessuno è limpido, tutti sono traditori corrotti, il denaro vince su tutto, il degrado sociale non dà speranze di salvezza.
Se in Suburra tutto ciò riguardava l’intera Capitale, in Adagio il punto d’osservazione è circoscritto e il centro del bersaglio più a fuoco, il regista si ispira in maniera più diretta ai grandi poliziotteschi e punta alla loro asciuttezza.
L’azione è quella tipica del noir, i personaggi sono combattuti tra fantasmi del passato e vecchi conti da regolare, ma mantengono il loro codice d’onore, sono disperati e pronti a tutto senza però perdere sè stessi, ricordano quelli di Scerbanenco.
Proprio lo scrittore milanese sembra essere l’ossessione di Sollima e finalmente riesce ad avvicinarsi alla sua poetica senza cercare il compiacimento del pubblico.
La messa in scena è scarna, non ha grandi orpelli, il tempo scorre lento e mortalmente inesorabile, tutto va adagio: lunghi carrelli accompagnano dall’esterno l’azione e tagli repentini conferiscono tensione fino alla meravigliosa sequenza finale nella stazione Tiburtina.
Adagio è un poliziottesco, esattamente come quelli di Umberto Lenzi o Ferdinando Di Leo, si arricchisce del tocco dei maestri orientali del genere action come John Woo o Johnny To e sebbene l’apocalisse incombe su Roma, questo piccolo grande film di genere fa nascere una flebile speranza che allontana l’imminente apocalisse (morale, poetica e narrativa) del cinema italiano.