Un padre. Un figlio. Un recente lutto e un lavoro appena perso. E, non per ultimo, un rapporto da coltivare, in modo da poter, finalmente, ricominciare daccapo. Questo è, in poche parole, quello che il cineasta norvegese Henrik M. Dahisbakken ha messo in scena nel suo Going West, presentato in anteprima italiana all’ottava edizione del Nordic Film Fest.
Nulla di nuovo? Nulla di nuovo. Eppure, malgrado ciò, da che mondo è mondo l’importante, nel momento in cui si decide di raccontare una storia per immagini è soprattutto il come lo si fa. Al fine, dunque, di conferire maggiore personalità al suo lungometraggio, il regista ha aggiunto al tutto il controverso e attuale tema del gender.
E così, in una piccola cittadina norvegese, prendono il via le vicende di Kasper (Benjamin Helstad), un giovane insegnante di musica rimasto da poco disoccupato, il quale, rimasto da pochi mesi orfano di sua madre, tenta di recuperare il rapporto con suo padre (Henrik Mestad) – caduto in depressione – partendo per un lungo viaggio in moto verso la costa ovest della Norvegia. Qui i due si recheranno a una premiazione di lavori realizzati mediante la tecnica del quilting, in cui la loro defunta moglie e madre era maestra.
Cosa c’entra in tutto ciò, dunque, il tema del gender? C’entra eccome. Il padre di Kasper, infatti, da anni ama vestirsi da donna, pur avendo mantenuto un rapporto vivo e sincero con sua moglie, di cui è stato sempre innamorato. Ed ecco che il tema del transessualismo – fin troppo spesso confuso con l’omosessualità – viene qui trattato in modo ironico e delicato, senza, tuttavia, aggiungere nulla di nuovo a quanto già stato detto in numerose altre pellicole affini.
Se, dunque, il lungo viaggio intrapreso da padre e figlio ci viene descritto sì con delicatezza e poesia – con tanto di suggestivo paesaggio norvegese a fare da cornice perfetta – il presente lungometraggio, fatta eccezione per qualche riuscito siparietto insieme a incontri casuali durante il tragitto, purtroppo non decolla, risultando, al contrario, a tratti anche piuttosto piatto, dato lo script fortemente classico e altamente prevedibile. Un effetto del genere è stato ottenuto, nel 2017, già dal di per sé poco convincente Helle Nächte, diretto dal tedesco Thomas Arslan e presentato in concorso alla 67° Berlinale, in quanto anch’esso privo di mordente e vittima di ogni qualsivoglia possibile stereotipo del caso.
A questo punto, non possiamo non pensare al bellissimo Una Storia Vera, diretto da David Lynch nel 1999, dove una semplice linearità del road movie – con tanto di surreali incontri durante il tragitto – riusciva, giocando di sottrazione, a sviscerare ogni più recondito sentimento umano.
Ecco, paragonando un prodotto del genere al presente Going West, notiamo con dispiacere quanto quest’ultimo risulti debole in ogni sua sfaccettatura. Persino la tanto spinosa questione del gender viene qui soltanto sommariamente approfondita, per un risultato che, malgrado il grande potenziale iniziale,ha visto tutti questi elementi tirati in ballo dar vita a un lavoro che, man mano che ci si avvicina allo scontato finale, finisce progressivamente per sgonfiarsi irrimediabilmente come un palloncino. Peccato.