Sarà finalmente in sala anche da noi, dal 6 agosto, High Life, l’ultimo notevole lavoro (2018) della regista francese Claire Denis, distribuito da Movies Inspired. Una multi-produzione francese, tedesca, polacca e statunitense, con i ruoli principali affidati a Robert Pattinson e a Juliette Binoche (reduce da un penultimo sodalizio con la stessa cineasta, L’amore secondo Isabelle), i quali avevano già recitato insieme in Cosmopolis di David Cronenberg. Più una sorridente e paffuta bambina che vediamo muovere i primi passi – veri – sullo schermo.

Premiato come Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, High Life è un’opera tanto delicatamente variopinta nell’aspetto quanto inequivocabilmente nera nell’essenza; da godere come tale o da affrontare con un brivido lungo la schiena, perché la Verità porta sempre in mano uno specchio.

HIGH LIFE: TRAMA

Futuro non precisato o realtà alternativa? Fatto sta che esiste una Terra che fa dei suoi peggiori criminali, ponendoli davanti alla scelta se trascorrere il resto della vita nel braccio della morte e poi venire giustiziati oppure immolarsi per servire l’astronautica, delle cavie da esperimenti spaziali.

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Ben oltre il Sistema Solare, sulla navicella n.7, diretta in perpetua accelerazione verso un buco nero per sfruttarne l’energia in favore del pianeta d’origine, sono rimasti solo Monte (Pattinson) e la figlia adolescente, destinati anche loro a sacrificarsi. Il primo rievoca vari momenti precedenti, nei quali l’equipaggio era più numeroso e per sopravvivere al Tempo praticava controvoglia la riproduzione controllata. A gestirla era una dottoressa-pizia (Binoche), anche lei ex-criminale, del tutto sottomessa all’altare di una Fecondità totale. Malessere e durezza regnavano ovunque, tranne che nelle pareti inutilmente ovattate della navicella: inedia, stupri, omicidi, non mancava niente. È in questo contesto che Monte, inizialmente riluttante, vive la sua paternità sempre più isolata.

HIGH LIFE: RECENSIONE

Claire Denis, con la collaborazione di Yorick Le Saux all’ottima fotografia e di Stuart Staples alla colonna sonora, realizza un lungometraggio delicato e a tratti suadente, eppure armoniosamente cupo, nichilista, distopico. Un film illustrativo e non di trama, lento ma sempre lampante come le scene di un teatro da camera, in cui al montaggio è affidato il compito fondamentale di mescolare le carte della sequenzialità. Protagonisti sono i difetti e le peggiori pulsioni di uomini e donne, esasperate oppure negate, sedate.

Manca la rappresentazione dell’origine di una tale devianza (non che fosse necessaria); di quando una luce splendeva ancora integra, fascio bianco e unico, prima di scomporsi in proiezioni monocromatiche sui muri della navicella e nei filtri gialli, blu, rosa in cui sono virate le inquadrature. Né c’è alcuna luce a illuminare i corpi dei morti abbandonati a fluttuare nello spazio, come pesci in un acquario vuoto e senza gravità. È un nero assoluto, prima ancora di farsi astro inghiottente.

Difficile non leggere l’opera come metafora neanche tanto velata dell’umanità di oggi.

L’orrore (nostro) nell’incontro casuale con la navicella che ha per ospiti solo cani, nel degrado totale, ha la stessa forza di quello che fu di Charlton Heston nello scoprire la testa di Lady Liberty conficcata nella sabbia di un pianeta fino a quel momento ignoto.

Nemmeno la simpatia di una bambina ancora innocente e generosa, sul cui corpicino l’inquadratura insiste oltremodo, ne cancella la futura condanna. Questa culminerà con il formare una nuova coppia errabonda di drifters con il padre, un sodalizio benevolo ma pur sempre votato all’autodistruzione.

Il pregiudizio contro la fantascienza si conferma duro a morire, se persino la regista ha dichiarato che qui non si tratta di film di genere. La fantascienza migliore invece sembra proprio essere questa, silenziosamente vibrante insieme alle sue galassie ignote.

Nelle riprese, i grumi di ovociti che si vorrebbero fecondare diventano grumi di corpi celesti; le scie stellari assomigliano ai liquidi umani, sgorganti dai corpi incluso quello metallico di un’insolita nave-parallelepipedo (finalmente questa forma!) – secrezioni vitali responsabili del mandare avanti la baracca spaziale.

L’unico scambio di fluidi mai praticato è quello naturale tra umani. Il solo utero in cui Monte entra consenziente, per purificarsi, è quello della piccola serra umida e senza cielo, dai verdi plasticosi e troppo brillanti ma comunque naturali, contenente quel poco di terra che ancora potrebbe evocare un mito fondatore ormai perduto.

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C’è qualcosa di Alien (il terzo) nella colonia spaziale dei detenuti, in particolare nel voto di castità e rinuncia fatto da Monte, monaco autoflagellante; un briciolo di Strange Days negli spezzoni di vita “normale” come una spiaggia d’estate inviati dalla Terra alla navicella, esperienze mai più vivibili dall’equipaggio; un ammiccamento a Matrix, negli ineluttabili cavi neri che conservano i corpi, tubi staccabili a piacimento da altri. Soprattutto c’è la memoria di Solaris (adorato dalla regista): nella condizione di attesa in uno spazio-tempo alterato, e nell’umida e giallastra palude terrestre dove i personaggi, da giovani, sono ancora umani, anche se per poco. Infine, sappiamo esserci anche un po’ di 2001: Odissea nello spazio, negli sforzi dichiarati – e riusciti – della Denis per evitare a tutti i costi di fare arrivare fino a noi spettatori il paragone sempre dietro l’angolo con il mostro sacro, e di creare un’opera originale.

Pattinson (nell’idea originale del progetto, allora chiamato Femmes Fatales, c’era Philip Seymour Hoffman nella sua versione più spossata), mozzo e vagabondo, resiste all’entropia tra autocontrollo e dolcezza, e fornisce un’ottima interpretazione dopo quelle di Good Time, Civiltà perduta e Life.

Juliette Binoche è brava a non cadere nel facile cliché del ruolo, e ci regala un personaggio profondo e misterioso, un’ape regina dedita alla raccolta dei nettari umani e all’inseminazione con ogni mezzo. Sua, e riuscita, è anche la scena più osata, quella della cosiddetta fuckbox: la stanza del sesso, camera cui si entra singolarmente ad allentare le proprie pulsioni. E guai ad incrociarsi.

Ottime anche le prove del resto del cast internazionale, André Benjamin e Mia Goth in testa.

Claire Denis (Cannibal Love – Mangiata viva, L’Intrus, White Material) con la sua forte visione personale, dimostra ancora una volta la sua versatilità e ci offre una pellicola che, mentre esteticamente ci incanta, sotto sotto ci fa vergognare e ripensare come specie.

Eppure, sotto lo schiaffo che si riceve senza fiatare, potrebbe rimanere uno spiraglio per qualcosa di buono. Tra le brutture e la vita in automatismo, vediamo infatti comparire la caratteristica che più di tutte ci rende umani, più forte anche della necessità di resistere e di appartenersi, e più della vita nuova che viene al mondo inconsapevole: la Narrazione. Monte, nonostante la totale assenza di senso e di orizzonte se non nella distruzione, parla al passato, più ancora a noi che alla figlia. Racconta per raccontare. Forse allora, nella rappresentazione di questa High Life, non tutto è perduto, per quanto il buco nero si avvicini: poco prima della Fine, siamo ancora noi.