Direttamente dalla Francia – passando anche per il Senegal – ecco arrivare nelle nostre sale un lungometraggio che ci racconta la singolare amicizia tra un bambino e il suo idolo di sempre, per un road movie a suo modo particolare e, per certi versi, alquanto atipico. Stiamo parlando di Il Viaggio di Yao, terzo prodotto cinematografico per il francese Philippe Godeau – che qui ha anche curato la sceneggiatura insieme a Agnès De Sacy – il quale ha messo in scena la storia di Seydou Tall (Omar Sy), un attore di successo che vive a Parigi da anni, ma che ha origini senegalesi, il quale – non potendo partire in vacanza con il suo figlioletto – intraprende da solo un lungo viaggio verso la sua terra di origine, al fine di promuovere l’ultimo suo lavoro. Qui l’uomo farà la conoscenza del tredicenne Yao (Lionel Basse), un ragazzino che da sempre sognava di incontrare il proprio idolo e che ha intrapreso un viaggio lungo ben trecentoottantasette chilometri al fine di conoscerlo di persona.

Le cose, dunque, cambiano improvvisamente: Seydou non può più fare ritorno a casa, ma è costretto a riaccompagnare il ragazzo a casa propria, lungo un viaggio che diventerà ben presto spunto di crescita per entrambi.

Il viaggio di Yao
Tutto già visto e rivisto? Indubbiamente. Eppure, Il Viaggio di Yao ha dalla sua in primis la particolare grazia con cui Philippe Godeau ha realizzato il tutto. Una storia, la presente, che, grazie ai toni lievi adottati (pur trattando spesso e volentieri temi difficili da digerire), fa somigliare l’intero lavoro (paradossalmente) a una sorta di favola moderna con un’ambientazione di altri tempi, all’interno della quale le stesse location vengono trattate alla stregua di un vero e proprio personaggio. Location, le presenti che, analogamente a quanto avviene per lo spettatore, vengono osservate quasi per la prima volta anche dallo stesso Seydou, il quale non aveva mai imparato a guardarle così da vicino, come è accaduto in compagnia del piccolo Yao.

Un’immagine del Senegal alquanto edulcorata, quello è vero. Eppure, se si pensa al tutto nell’ottica della suddetta favola, ecco che, magicamente, la giostra sembra funzionare e tutti gli ingranaggi girano alla perfezione.

Il regista, dal canto suo, ha attinto a piene mani da quanto realizzato in passato, conferendo al lungometraggio in questione sì un tono il più possibile vicino al reale, ma anche, allo stesso tempo, una confezione volutamente patinata che per nulla appare forzata o poco credibile. Allo stesso modo, l’andamento narrativo dai toni prettamente contemplativi adottato ben si addice ai momenti di riflessione dei due protagonisti, i quali, a loro volta – pur se aderendo forse eccessivamente a stereotipi già più e più volte sfruttati in passato, vengono resi alla perfezione sullo schermo dagli ottimi Omar Sy (particolarmente adatto, a quanto pare, alle storie in cui gioca in campo come co-protagonista) e Lionel Basse, vero e proprio valore aggiunto all’intero lavoro.

Il viaggio di Yao
Una favola gradevole e imperfetta, classica e innovativa allo stesso tempo, la quale vede come suo momento più alto la scena – di truffautiana memoria – in cui i due protagonisti, poco prima di salutarsi forse definitivamente, sono intenti a correre e a giocare in spiaggia, felici, al tramonto.