Intervista a Luca Bigazzi

di Attilio Pietrantoni

Come sta il cinema italiano? Perché non riesce ad accontentare critica e pubblico insieme?

Sono dispiaciuto perché soprattutto nei giovani critici vedo un’esterofilia che sembra imbarazzante e minacciosa perché invece io trovo che il cinema italiano, lo dico non per difendere il mio orticello personale, dia segni di grande vitalità e di grande personalità, non è una frase fatta, credo che ci siano dei registi originali, delle storie a volte non funzionanti, però comunque sempre guardate con un occhio molto particolare, una cosa che ad esempio non vedo nel cinema francese o nel cinema inglese che sono molto più stereotipati nei generi. Forse noi abbiamo difficoltà produttive maggiori rispetto ad altri, tuttavia penso che ci sia grande vitalità nel nostro cinema e mi dispiace, ripeto, che i giovani critici, soprattutto quelli dei blog o delle riviste on-line come la vostra, non abbiano ancora colto questa caratteristica, mi colpisce molto questo aspetto, penso ci sia un’avversità preconcetta e insopportabile nei confronti del cinema italiano.

A parte un periodo buio, negli anni ’70, dalla fine degli anni ‘80 in poi il cinema italiano vive, secondo me, un’ottima forma.

Lei ha lavorato anche all’estero, con registi come Kiarostami; in cosa si differenzia l’approccio di un regista o di una troupe straniera rispetto a quelli italiani?

Ho lavorato con Kiarostami ma era una troupe italiana, però nel film di Sorrentino (This must be the place, ndr) ho lavorato con una troupe americana mischiata ad una troupe italiana e con una irlandese, nella parte in Irlanda, e ogni volta che mi è capitato di lavorare all’estero non ho trovato nessuna diversità, ho notato che siamo tutti uguali, facciamo tutti gli stessi errori. Con Kiarostami c’era una barriera linguistica relativa, nel senso che entrambi parlavamo un inglese molto approssimativo, ma ci intendevamo molto bene, paradossalmente è stata problematica più la differenza di scrittura che di lingua: loro scrivono da destra verso sinistra ed è così leggono anche l’immagine. Il nostro lavoro è fatto di piccole sfumature e l’intesa tra le persone passa attraverso la comunicazione non verbale, nel caso di Kiarostami ho capito quanto questo sia vero perché le incomprensioni nascevano proprio da questo, era la scrittura che ci allontanava, ma è stata solo una difficoltà iniziale, capita questa tutto è andato a posto.

C’è un regista col quale si è trovato particolarmente bene durante le riprese?

Tutti quelli con i quali continuo a lavorare, non ce n’è uno al quale sono particolarmente affezionato, ma se ne devo dirne uno faccio il nome di Silvio Soldini, perché è con lui che ho iniziato a lavorare, anche se adesso non lavoriamo più insieme.

Come vede il rapporto di collaborazione regista-autore della fotografia?

Il rapporto di collaborazione è estremamente importante e necessario, mi rifiuto di non sentirmi parte della riuscita artistica e creativa del film, spero che i registi con i quali lavoro vedano in me un collaboratore che darebbe la vita per la riuscita del film al quale stiamo lavorando, il nostro film!

Negli anni ’70 e fino agli anni ’80 l’Italia era famosa nel mondo per il Genere, perché adesso non si fa più?

Il genere non si fa più in generale nel mondo, non solo in Italia, il cinema segue delle mode, è come chiedere a un musicista jazz perché non si fa più il be-bop, perché si supera, si passano delle stagioni e si evolve l’arte cinematografica, che non è diversa dalla pittura o dalla musica. Nuove sperimentazioni, nuovi generi diventano forse più interessanti, prima, in linea di massima, non si faceva cinema legato alla realtà, come attualmente si sta facendo in Italia.

Fellini Antonioni punto inarrivabile per gli autori attuali?

Non credo, sono stati meravigliosi registi, ma ce ne sono altrettanti bravi oggi, diversi, ma ugualmente bravi.

Fotografia statica e fotografia cinematografica sono due mondi diversi e opposti?

Io ho cominciato con la fotografia statica, quando fai una fotografia da fotografo difficilmente metti le luci, ti concentri sull’inquadratura, questo mi è servito per la composizione dell’immagine. nel corso degli anni mi rendo conto, per quanto riguarda le luci, di correre il rischio di ripetermi. A volte l’esperienza rischia di tramutarsi in un freno alla creatività, rimpiango l’innocenza e lo stupore degli inizi, perché questo lavoro ha bisogno di essere reinventato continuamente.