Al 50° premio Flaiano è stato presentato in anteprima mondiale il documentario Carne et Ossa di Roberto Zazzara (qui la recensione).
Con l’occasione abbiamo avuto il piacere di rivolgere qualche domanda all’autore del film e anche al suo produttore Cristiano Di Felice.
Queste le risposte di Roberto Zazzara
A chi parla Carne et Ossa?
Spero a chiunque, sicuramente a me stesso e a coloro che con me hanno dei punti di contatto. Ad esempio so per certo che le persone che hanno la mia stessa origine territoriale, troveranno rappresentati i loro luoghi e finalmente raccontato un pezzettino del loro immaginario.
Parla a coloro che amano le sfide folli, a quelli che hanno la curiosità di cercare opere e punti di vista diversi, agli amanti del bianco e nero, ma anche del materiale d’archivio, a quelli che hanno sempre la sensazione che qualcosa si nasconde sotto all’apparente, agli amanti del paesaggio, sia esso naturale sia umano, a quelli che preferiscono ascoltare domande piuttosto che affermazioni.

In cosa si differenzia Carne et Ossa da altri lavori sulle tradizioni?
In tutta onestà, non credo di avere una sufficiente cultura di cinema antropologico per poter fare dei paragoni. Molto spesso mi approccio ai miei progetti con istinto, per poi risalire a motivazioni più logiche e profonde.
Nel caso di Carne et Ossa, quando il produttore Cristiano Di Felice mi ha parlato per la prima volta della Corsa degli Zingari, quello che mi ha colpito é stato l’aspetto estetico, gli uomini intenti a sacrificarsi sulle rocce vive, nonostante i loro corpi spesso normali e le loro etá molto varie. Istintivamente mi sono chiesto perché mai lo facessero e per me, ogni opera nasce da un’indagine, sia essa territoriale o psicologica.
A quel punto ero stato catturato da questa storia misteriosa eppure popolare e non potevo fare altro che cercare di scardinare le motivazioni personali e quelle collettive dei partecipanti, ma anche ricercare le radici misteriche che possono avere portato, secoli fa, gli esseri umani a decidere di intraprendere questa pratica, anche solo a concettualizzarla.
Come è nata la collaborazione con Cristiano Di Felice, Veronica Naccarella e l’IFA?
Come tutti i pescaresi, d’estate amo tornare e godere dell’unicità della città che vive in simbiosi con il mare. Mi piace essere un vitellone e passare le serate in giro. In una di quelle, ho conosciuto Cristiano che era con Michele D’Attanasio, acclamato direttore della fotografia, anche lui pescarese e comune amico.
Nonostante evidenti diversità caratteriali, con Cristiano da subito si é instaurata un’intesa e la visione di sviluppare con tutte le nostre forze un immaginario di cinema abruzzese, ognuno a modo suo: lui con assiduità e formazione, io tornando ogni volta da viaggi ed esperienze lavorative in luoghi altri, anche molto lontani. Da questo connubio e dalle lunghe chiacchierate é nata l’idea di fare un documentario sulla Corsa, che da subito mi é sembrato un modo perfetto per proseguire il mio personale dialogo col territorio, dopo il mio precedente film Transumanza.
Nel giro di poche settimane abbiamo messo su la prima, grandiosa giornata di riprese, durante la Corsa del 2020, in piena pandemia. Con gli allievi ed ex allievi dell’IFA, abbiamo creato delle mini troupe sparse per il percorso a caccia di materiale e alla ricerca dei primi indizi sull’indagine.
Non immaginavo – ma sentivo – che storie così forti potessero emergere. Come quella della prima donna che partecipò alla Corsa, negli anni ’90, di cui poco si sapeva all’inizio e che poi abbiamo avuto la fortuna di incontrare.

In Carne et Ossa è evidente un rimando alla sacralità e alla spiritualità, secondo te sono ancora presenti nel cinema?
In effetti se penso a sacralità e spiritualità, mi vengono in mente soprattutto opere di qualche decennio fa, o autori che sebbene ancora attivi, sono giá considerati classici, come Scorsese o Ferrara. Tra gli italiani attivi, sicuramente Frammartino é uno di quelli in grado di vedere e trasmettere l’oltre.
Sebbene i citati siano per me punti di riferimento, mi piace pensare che se esiste un genere che riesce a unire spiritualità e popolarità, dal mio punto di vista é senza dubbio l’horror, che tratta dell’intangibile, di quello che non appartiene a questo mondo, delle terre di confine e della paura di attraversarle.
In questo senso, per me Carne et Ossa é un documentario orrorifico, perché tratta di dolore e oltre. E non é un caso che la genesi di questo lavoro sia corsa in parallelo con quella del mio film The Bunker Game, che appunto é un thriller horror, misterioso e sovrannaturale.
Chi sono i tuoi autori di riferimento?
Ho una strana memoria, molto visiva, che acquisisce e rielabora. Per me a volte é difficile risalire ai riferimenti e a volte mi succede di ritrovarli tempo dopo.
Per Carne et Ossa, ho fatto molta ricerca fotografica prima delle riprese, perché volevo che le immagini del film fossero fotografiche, epiche. Mi occupo anche di fotografia sportiva, cercando sempre di fare storytelling e lo stesso ho cercato di fare qui, immortalare il gesto in modo da farne emergere significati più profondi.
La scelta del bianco e nero poi é stata fatta praticamente subito, da un lato ispirandomi ad alcune foto di vecchie edizioni della Corsa, ma anche prendendo spunto da una fotografia che scattai proprio a Pacentro anni fa, quando facevo esperimenti su pellicola diapositiva in bianco e nero. In quegli anni avevo scoperto Mario Giacomelli e la sua fotografia pittorica, il suo contrasto così netto eppure leggero, mi ha profondamente influenzato.
In un secondo momento abbiamo scoperto lo scrigno degli archivi, grazie soprattutto all’incontro con Pasquale Di Ianni, fine cinematore pacentrano e custode di immagini eccezionali di corsa e vita del paese, che hanno aperto una finestra eccezionale sull’intimitá collettiva.
Avevo a disposizione del cosiddetto found footage e subito alla mente mi sono tornate le opere dei maestri di questo genere, come Péter Forgacs, capaci di dare un senso nuovo al materiale e farne emergere il substrato, il non detto. E lí ho trovato l’equilibrio tra la mia visione, astratta dal bianco e nero, e i riflessi filmati, con il loro carico di fascino e mistero, che sempre le immagini di archivio, soprattutto quelle amatoriali, si portano dentro.

Cosa ti ha detto l’esperienza di Carne et Ossa?
“É un gesto che viene da dentro, é come un fuoco che ti dice che devi farlo, e capisci che se sei disposto a fare una cosa del genere, puoi fare tante altre cose.”
Questa é una citazione del film, una dichiarazione di intenti che uno dei corridori ci ha regalato durante l’intervista, rivelandoci una grande verità e la forte simbologia di quello che stavamo raccontando. Perché i primi a imparare qualcosa facendo documentari, sono coloro che li fanno, che hanno la fortuna di confrontarsi con persone diverse, a volte illuminate, ma sempre con qualcosa da dire, basta che si sia pronti ad ascoltarli.
Questo mi ha detto l’esperienza di Carne et Ossa, un film che parla di noi, ma anche del fare quello che facciamo tutti, nel nostro quotidiano, e nello specifico quello che facciamo noi di Carne et Ossa è cinema di frontiera, in una terra ostile e meravigliosa.
Queste le risposte di Cristiano Di Felice invece:
Come è nata la scelta di produrre Carne Et Ossa?
Nell estate 2020 insieme a Roberto decidemmo di andare a trovare i nostri allievi sul set, perché Roberto fa parte della famiglia IFA ed è un ottimo insegnante. Da buon abruzzesi prima ci fermammo a mangiare (ovviamente arrosticini) e poi gli mostrai alcune foto da Google immagini della corsa, ma non ero mai stato a Pacentro o approfondito abbastanza, Roberto concluse la cena continuando a sbirciare foto su foto sulla corsa, andammo poi sul set degli allievi IFA – scuola di cinema.
Il mattino seguente al risveglio mi ritrovai un messaggio di Roberto praticamente già pronto a partire. Da premettere che ero già un suo fan dopo aver visto Transumanza e i suoi lavori in India come DOP e all’epoca già mi parlava di The Bunker Game.
Come è nata la collaborazione con Roberto?
Il nostro rapporto è basato su una sorta di bussola che in fondo punta nella stessa direzione, è una cosa che avverti e perciò non hai bisogno di troppe chiacchiere. Il giorno dopo quella cena ne parlai a Veronica Naccarella (mia compagna da 14 anni) con la quale dirigiamo la scuola IFA e anche con lei poche parole, come fu, del resto, per il mio film precedente Wrestlove ed eravamo praticamente già a lavoro. Dopo un mese Roberto era a dirigere la sua prima giornata per di più nel giorno della corsa.
Carne et Ossa poi incarnava perfettamente lo spirito del progetto IFA GLOCAL FILM, ovvero quello di raccontare storie locali con respiro internazionale, dove al centro c’è l’autore nella sua massima libertà espressiva.
La scuola IFA da anni ottiene riconoscimenti nei principali festival, quanto è difficile far sentire la propria voce nel mondo del cinema?
I ragazzi che frequentano la Scuola di Cinema IFA sono il cuore pulsante anche delle nostre produzioni di lungometraggi. Tutto parte in fondo dalla commistione di giovani talenti e i tantissimi professionisti che insegnano a scuola e spesso condividono e collaborano alle produzioni degli studenti. L’IFA è una continua pentola a pressione.
Negli ultimi anni ci sono stati gruppi di allievi che hanno saputo sfruttare davvero le capacità produttive della Scuola, per citare alcuni successi recenti come il corto La Confessione, inserito dal Centro Nazionale del Corto di Torino nel progetto “10 corti in giro per il mondo” e candidato al Fabrique Du Cinema Awards nella categoria miglior Corto Italiano o i registi Giuseppe D’Angella e Simone D’Alessandro freschi finalisti del al Premio Solinas.
Riders di Andrea Russo che sta vincendo diversi premi è stato un altro contenitore di talenti come la Direttrice della Fotografia Francesca Florindi entrata nel progetto Becoming Maestre Di Netflix e David di Donatello, oppure la montatrice Tessa Laporese che ha appena terminato i suo primo lungometraggio.
Importanti i premi ricevuti al concorso Bookciak Azione evento di pre-apertura delle Giornate degli Autori al Festival di Venezia soprattutto per l’occasione di confronto tra studenti in quanto partecipano le migliori scuole di cinema italiane. Sono davvero tanti i ragazzi che stanno facendo bene, spesso troviamo i loro nomi nei titoli ti testa o coda di film, è questa la voce che ci riempie di orgoglio.
Per far sentire la nostra voce nel cinema giovane l’unica soluzione è continuare a credere nei progetti e sostenerli anche dopo la scuola, con la IFA praticamente dopo il diploma senti di essere entrato in un progetto ancora più ampio.

Nel 2015 hai prodotto il film d’animazione Bangland di Lorenzo Berghella e ora questo
documentario visivamente complesso e importante. Perché in Italia siete in pochi a
“scommettere” su prodotti innovativi?
È importante partire da Bangland di Lorenzo Berghella perché proprio in quell’anno avevamo preso coscienza di diverse cose. La prima sensazione fu a Venezia: per noi era la primissima volta e proponevamo un regista di 25 anni con un film d’animazione completamente artigianale, da subito ci rendemmo conto attraverso la stampa che il film faceva parlare di sé ancor prima della proiezione alle Giornate degli Autori, ma qualcosa continuava a non tornare.
Eravamo lì da outsider, senza passare dal triangolo romano del daje e in qualche modo questa cosa pesava, non intendo all’interno delle Giornate degli autori anzi, ma proprio come percezione tra le persone o i colleghi.
Bangland vinse Premio Siae e neanche quello fece passare quella maledetta sensazione.
Dopo Venezia, il circuito romano del daje non ci aveva sdoganato perché chiuso nel suo meccanismo che impedisce a prodotti “di provincia” di arrivare al pubblico. La mentalità romana è “per fare le cose devi venire a Roma come fanno tutti da sempre”. Questo secondo me è un pensiero e un atteggiamento che ancora oggi condiziona.
Tu che vivi in provincia invece sei cosciente che non sei al centro del mondo quindi alzi la testa per vedere lontano e soprattutto nella direzione che vuoi tu. Osservando ti accorgi presto di chi invece non sta in punta di piedi e con il collo allungato e gli occhi curiosi.
Sin dal Primo lavoro comunque abbiamo trovato sempre terreno fertile con Gianluca Arcopinto e insieme abbiamo prodotto diversi lavori tra cui proprio Bangland.
Il modo di operare ha influenzato e incoraggiato molto il progetto produttivo di IFA, poi conosci persone come Roberto che ha continuato a consolidare, condividere e arricchire una visione ancor prima di Carne Et Ossa.
Insomma credo che I progetti fatti finora siano fondamentalmente la conseguenza di un apparente rifiuto che si è trasformato in opportunità di crearsi una propria identità produttiva.
Attualmente insieme ad Arcopinto stiamo lavorando all’esordio del giovanissimo pescarese Pietro Falcone, sempre con il collo lungo come le giraffe.