In un periodo in cui il cinema è stato costretto a fermarsi, abbiamo pensato di prenderci del tempo per rivolgere qualche domanda agli autori di Varichina-la vera storia della finta vita di Lorenzo De Santis, per capire cosa si nascondesse dietro ad una produzione forte e delicata come questa.
In una chiacchierata informale con i registi Antonio Palumbo e Mariangela Barbanente e il direttore della fotografia Luca La Vopa, abbiamo messo in luce gli intenti, le passioni e le aspettative che hanno portato alla nascita di questo splendido docu-film tutto italiano.

Mariangela Barbanente (regista), Luca La Vopa (Direttore della fotografia) e Antonio Palumbo (regista)

Mariangela, per te che vieni dal mondo del documentario, quindi sei abituata a maneggiare la verità, è stato difficile ricostruire il personaggio di “Varichina”, ma soprattutto il Lorenzo De Santis uomo, la persona dietro il personaggio, partendo dai ricordi di una città, con memorie diverse e quindi non rifacendoti ad un’immagine unica ma ad una memoria collettiva?

Personalmente mi muovo su due binari, come regista faccio documentari ma sono anche una sceneggiatrice ed il punto di partenza è lo stesso: il piacere di raccontare una storia, cioè far entrare il pubblico in contatto con personaggi veri, o di fantasia, che dicano qualcosa di non detto sull’animo umano. Varichina è stato una grande occasione per me. A dire la verità, io non ricordavo Lorenzo De Santis prima che Antonio me ne parlasse, avevo un ricordo piuttosto vago di lui. Mi è sembrato subito molto interessante raccogliere testimonianze in giro per la città e costruire il personaggio fiction attraverso la memoria condivisa dai vari testimoni. Nel lavoro di scrittura con Antonio, siamo partiti da quella che era l’apparenza di Lorenzo. C’erano pochissime immagini di lui, anzi non c’era praticamente nulla di questo personaggio. Noi abbiamo costruito prima l’involucro, un po’ alla volta, da questa apparenza abbiamo scavato nel personaggio. Se si fa attenzione, si può notare infatti, che il film sia costruito in tre parti, c’è il Varichina pubblico, il privato ed il Varichina intimo, quello interiore. Ed è stata questa la nostra sfida come sceneggiatori, cercare di mostrare tutte le sfaccettature di Lorenzo.
Ti racconto una piccola cosa, la differenza tra me ed Antonio si è vista quando dovevamo decidere dove girare la scena finale, quella del cimitero: Antonio voleva ricostruire la tomba all’aperto, per avere un’immagine più bella perché ci sarebbe senz’altro stato più spazio per girare; io invece ho detto subito di no, la mia anima documentarista voleva rispettare quel luogo, volevo che fosse quello vero, ed il risultato credo infatti che sia stato di una scena molto evocativa e sincera.

Ed invece a livello pratico, nelle interviste, come si è posta Bari nei confronti di questo progetto? Oltre alle persone ben disposte, che abbiamo visto nelle interviste, che ricordavano Lorenzo ma soprattutto avevano voglia di ricordarlo, avete incontrato qualche ostacolo, magari qualcuno che non era incline a riportare in vita un personaggio del genere?

L’ostacolo maggiore è stata proprio la sua famiglia, parliamo di insulti dal citofono, siamo stati letteralmente cacciati. Per il resto invece, quello di Varichina è un ricordo così antico che tutti i concittadini si sono mostrati aperti e ben disposti a raccontare episodi su di lui. Credo soprattutto che questo fosse un modo per chiedergli scusa a distanza di tempo, un modo per farsi perdonare da Lorenzo per non averlo capito.

Antonio, in una delle interviste hai detto che tu stesso hai avuto modo di conoscere Varichina, guardandolo da lontano e non entrandoci in stretto contatto, proprio perché questo suo ostentare la sua omosessualità poteva generare disagio negli altri. A questo proposito volevo chiederti: dato che tra gli intervistati molti hanno detto di non essersi mai avvicinati troppo, credi che questo sia stato dovuto anche alla mentalità del tempo? O meglio, credi che oggi le cose sarebbero potute andare diversamente o che comunque un personaggio così vistoso avrebbe ancora incontrato difficoltà ad essere incluso nella società ancora oggi?

Sicuramente molti non si avvicinavano a lui perché in quegli anni, a Bari, l’omosessualità era ancora vista come una malattia, intendo qualcosa che si pensava potesse davvero contagiarti. L’omosessuale era visto come un freak. Varichina, a prescindere dalla sua omosessualità, era un personaggio chiassoso, lui faceva teatro per strada, non voleva passare inosservato ed il fatto che la gente lo prendesse in giro era per lui come una medaglia, un riconoscimento del suo ruolo pubblico, era molto egocentrico e vistoso. Quella che avete visto nel film infatti è un’immagine edulcorata, noi abbiamo cercato di non farlo sembrare una macchietta sullo schermo, ma in realtà era una gallina urlante e colorata che attraversava la città. Diciamo che, avvicinandolo, tu sapevi che se fossi salito su quel palco virtuale dove lui si esibiva ogni giorno, avresti fatto una figuraccia perché Varichina ti prendeva in giro, ti sfotteva senza freni inibitori. Lui non aveva mai un tono della voce normale, urlava per qualsiasi cosa. La prima volta che l’ho visto, avrò avuto una decina di anni, me lo ricordo come un personaggio imbarazzante, non solo per la sua omosessualità, ma proprio per il suo carattere.

Luca, oltre ai costumi del personaggio tipicamente anni 70, hai cercato di dare un look anni ’70 anche all’immagine, in questo sei stato agevolato dal digitale? Questa scelta è venuta da te o dai registi?

Varichina è stato il mio primo docu-film ed anche la prima volta in cui ho lavorato con due registi, quindi per la prima volta mi sono trovato a dover inserire, all’interno dello stesso prodotto, due linguaggi molto diversi tra loro. Nella parte documentaristica del film abbiamo cercato di intervenire il meno possibile sull’immagine: abbiamo scelto di lavorare sempre con luce naturale. Non avevamo grossi mezzi (il budget per Varichina era di 25mila euro ndr) e abbiamo lavorato con una macchina che ci permettesse di essere versatili, sia nella parte di fiction che in quella documentaria, il che non è mai semplice. Con Antonio e Mariangela abbiamo parlato di questa idea di trovare qualcosa che funzionasse per entrambi ma che, allo stesso tempo, ci permettesse di diversificare le due cose. Nella parte di fiction, in cui abbiamo ricostruito episodi della vita di Lorenzo, l’idea è stata quella di ricreare la luce che ci sarebbe stata in quei luoghi, diciamo che abbiamo cercato di mantenere quell’idea di luce che c’era, e che ci sarebbe stata negli anni 70. Personalmente, ti dico, che io vengo dal mondo del digitale ed ho iniziato da subito a lavorarci, ma l’idea in questo docu-film in particolare, è stata quella di lavorare con una macchina che ci permettesse di gestire bene sia alte luci che basse luci.

Antonio, ho appreso da alcune interviste che vi sono state rivolte in precedenza che, durante la camminata di Onnis nei panni di Varichina sul lungomare di Bari, i passanti hanno lanciato insulti spontanei, come se quel personaggio fosse tornato dal passato. Mi interessava sapere: cosa avete provato in quel momento? vi siete resi conto che stavate andando nella direzione giusta? Che avevate ricreato un personaggio molto simile all’originale, che aveva fatto tornare un vecchio ricordo nella sua città?

Inizio con il dirti che, adesso, la docufiction è stata abbastanza sdoganata, pensa che quando siamo stati nominati ai nastri d’argento era il primo anno in cui c’era la categoria docufiction. Questo è stato uno dei primi esperimenti fortunati, noi siamo riusciti a portare un film-documentario di 52 minuti nelle sale cinematografiche ed anche in giro per il mondo ed è stato percepito proprio come un film. Infatti, anche tutta la sfera del documentario in Italia è più facile che venga considerata proprio come un prodotto cinematografico, anche se c’è molto lavoro da fare rispetto a tanti altri paesi, molto più avanti di noi. In quella scena (la camminata di Onnis sul lungomare di Bari ndr) mi sono reso conto che il linguaggio fiction e linguaggio reale si intrecciavano ed i testimoni inconsapevoli diventavano attori di un film in cui l’attore era un testimone. Io, a quel punto, mi sono davvero emozionato, ho capito lì che avevamo fatto la scelta giusta.

(Mariangela Barbanente prende la parola ) la scena con Toto Onnis che cammina sul lungo mare è stata la ciliegina sulla torta di un fenomeno che ci è scoppiato tra le mani già da quando giravamo nel quartiere libertà. Nelle camminate di Lorenzo, nel suo quartiere, c’era chi ci dava pareri su come sistemare i capelli di Toto ( Totò Onnis, protagonista del docufilm ndr) e chi si complimentava per la somiglianza; diciamo che già li avevamo avvertito che c’era una memoria, di quel personaggio, ancora molto viva. Nel quartiere liberà però possiamo dire che giocassimo facile, quella era proprio casa sua, sul lungomare invece era diverso, in quei momenti in cui i passanti abbassavano il finestrino e si rivolgevano ad Onnis come fosse il vero Varichina, sono stati la consacrazione del fatto che il suo fantasma fosse ancora nell’aria. C’è da dire un’altra cosa poi, di cui io come tutti, sono molto orgogliosa: quando abbiamo presentato per la prima volta il film a Roma, l’abbiamo fatto con un padrino di tutto rispetto, Gianni Amelio, nella serata infatti erano stati messi insieme la presentazione del nostro film e quella del primo romanzo scritto da Amelio. Gianni disse che il film gli era piaciuto molto, soprattutto perché il passaggio dal documentario alla fiction era veramente fluido, non sentivi lo stacco e te lo godevi come se fosse davvero un film di fiction, e detto da un maestro come lui acquista un altro valore. Lì io e Antonio abbiamo fatto festa.

Partendo dal fatto che la legge sull’omotransfobia sia stata votata in parlamento ma che, ancora nel 2020, abbia trovato l’opposizione di un gran numero di parlamentari, quanto secondo voi è ancora importante e quasi necessario fare questo tipo di documentari e narrazioni che raccontino storie vere per sensibilizzare il pubblico su queste tematiche?

(Prende la parola Luca La Vopa ndr) Questa domanda mi tocca da vicino, infatti la prima volta che mi hanno contattato per Varichina ho pensato che l’intenzione fosse proprio che chi meglio di me avrebbe potuto cogliere l’essenza di un lavoro del genere. E ti rispondo subito di sì, c’è ancora tanto bisogno di raccontare storie del genere, che sono tante ed interessanti. Ognuno vive questa situazione in modo soggettivo, per me è una battaglia quotidiana, non aspetto un documentario o simili per fare attivismo, quello va fatto ogni giorno semplicemente rimanendo chi siamo davanti a chiunque, senza filtri. Fortunatamente tante altre persone la pensano così e queste sono tematiche che continuano ad attirare molte produzioni cinematografiche. Questi temi ormai diciamo che sono stati sdoganati parlando di coppie gay, donne trans o qualsiasi altra storia che abbracci il mondo LGBTQ.

(Antonio Palumbo) Qualcuno ha detto che bisogna raccontare storie che si conoscono, quindi personalmente non parto mai da un punto di vista politico o attivista. Credo che continuerò a fare questo lavoro finché aprirò la finestra e mi farò incuriosire da quello che succede sotto. A me piacciono molto le storie degli underdog, quei personaggi ai margini, e Varichina lo era. Mi sono chiesto infatti come sia possibile ghettizzare chi ha una religione diversa, chi ha un colore della pelle diverso o un gusto sessuale diverso a prescindere da quello che si è come persona, ancora oggi nel 2020; per quanto possa sembrare una domanda retorica, io me lo chiedo veramente, ma l’unica risposta che mi do è che siamo circondati da una massa di persone ignoranti che non hanno mai allenato la propria sensibilità. Penso quindi che serva raccontare queste storie, ma soprattutto farle arrivare. Quello che io e Mariangela abbiamo cercato di fare è stato anche entrare nelle scuole, nelle carceri, nelle università per far vedere il docufilm e, devo dire, che un paio di volte, ci siamo riusciti. Secondo me però la tematica, stavolta LGBTQ ma parlo di qualsiasi fobia, andrebbe davvero affrontata seriamente all’interno delle scuole e dei centri sociali perché altrimenti rimarrebbero cose che ci teniamo solo per noi. Per intenderci, i film che vanno al cinema, quelli forti, rimangono sempre di nicchia ed il pubblico che hanno è ovviamente quello segue questo tipo di pellicole ed è  quindi già sensibilizzato a tematiche del genere, penso che però dovremmo cercare di aprirci a tutti i tipi di pubblico. Con Varichina penso che ci siamo riusciti, almeno a Bari ed in gran parte della Puglia, il film è stato stravisto ed io credo che molta gente abbia riflettuto su quello che è successo a Lorenzo e sul punto di vista dei diversi, secondo me Varichina ha fatto breccia nella sensibilità di molti. La mia unica missione, diciamo, che è riuscire ad emozionare gli altri con le storie che emozionano anche me, compreso Varichina ovviamente.

(Mariangela Barbanente) Intanto ti dico che trovo assurdo che, ancora nel 2020, una legge come questa debba esser discussa e possa aver parlamentari contrari, credo debbano essere dati acquisiti ormai: diritti e rispetto per la vita ed il fatto che ciascuno debba essere difeso. Però penso anche che la società civile per certi aspetti sia molto più avanti della politica. Mi viene in mente quando, scegliendo gli attori del cast, abbiamo selezionato un ragazzo di 13 anni, Claudio, per interpretare il Varichina giovane. Una delle preoccupazioni della sua insegnante di recitazione è stata che, essendo lui di un paese piccolo, il fatto che interpretasse un omosessuale potesse diventare oggetto di scherno e quindi ha ritenuto opportuno che noi affrontassimo la questione con la madre del ragazzo. Fortunatamente la madre non ha avuto nulla da ridire ma, a posteriori, questa cosa non si è verificata, questa preoccupazione non si è neanche presentata, non ha creato problemi a nessuno, il timore di possibili scherni, semplicemente, non si è verificato. Quindi per questo ti dico che, secondo me, molto spesso la politica è un passo indietro rispetto al buon senso della società civile.