In occasione dell’uscita del brano d’esordio e del videoclip ufficiale di “Ma l’amore no“, del cantante e attore trentino Matteo Ferrari, pubblicato e distribuito da Bluebelldisc Music, oggi l’artista si racconta, parlando del progetto storico culturale alla base del suo album “Maramao”; qui Ferrari reinterpreta le più belle melodie italiane composte tra i difficili anni 1915 e 1945, dando sfogo alla sua identità retrò, ispirata da un bisnonno anch’egli cantante e attore e riportando il passato nel presente per dare nuova vita alle melodie e alle atmosfere che costituiscono l’identità della musica italiana.

Diplomato alla Bernstein School of Musical Theater di Bologna, Matteo Ferrari ha poi frequentato la Guildford School of Acting nel Regno Unito, per dare inizio ad un’intensa attività artistica grazie alla quale ha calcato diversi palcoscenici italiani, tra cui: il Teatro Sistina, il Teatro Olimpico di Roma, il Teatro Manzoni di Milano, il Teatro comunale di Bologna e il Teatro Goldoni di Venezia. Dal palcoscenico alla musica, dal musical alla canzone, il progetto del giovane artista fa si che il pubblico torni indietro nel tempo riscoprendo le origini, troppo spesso dimenticate, della nostra canzone in un periodo in cui esibirsi sembrava quasi impossibile.

Ma l’amore no è una canzone dalla poeticità disarmante e nonostante io l’abbia reinterpretata in maniera più drammatica dell’originale, è un inno alla speranza e al vivere il presente con amore, cose necessarie in questo periodo di pandemia che ci ha messi difronte alle nostre fragilità. È un omaggio a quei musicisti che hanno affrontato un clima di conflitti, dittature e censure cercando il “sole in fronte”; a chi si è avvinghiato con tutta la forza alla persona amata che partiva per il fronte.

Ciao Matteo, da dove nasce la scelta di reinterpretare questi brani temporalmente e musicalmente così distanti da noi? ma soprattutto, che affinità o differenze hai trovato tra i testi, le musiche e le atmosfere delle canzoni composte tra le due guerre ed il mondo di oggi da spingerti a riportare il passato nel tuo presente e in quello del tuo pubblico?

Queste canzoni fanno parte del DNA di ogni italiano, quelli della mia generazione le hanno conosciute grazie ai propri nonni. Sono brani musicalmente molto interessanti e innovativi per l’epoca in cui sono nati. Sono l’equivalente dell’American Songbook, solo una decina di anni più avanti. Il tema ricorrente delle canzoni è la nostalgia di qualcosa che è andato perso, l’angoscia di perdere ciò che si ama e il desiderio di normalità: temi comprensibili dato il periodo difficile in cui sono state scritte. Sono molto legato alla mia famiglia e mi affascina la storia, specialmente quella dei teatri storici italiani di cui, durante la pandemia, ho iniziato a collezionarne le fotografie in bianco e nero. Purtroppo molti di loro sono stati abbattuti e proprio per questo è importante tenerne viva la memoria.

Riguardo l’importanza di queste canzoni, spesso definite “canzonette” tu stesso hai evidenziato quanto in realtà questo termine sia estremamente riduttivo per identificarle. Hai parlato infatti di una loro evidente contaminazione con sonorità jazz e swing provenienti dall’America di quei tempi: ti andrebbe di raccontarci di più riguardo questa commistione di generi?

Venendo dal teatro, più precisamente dal genere del musical theatre anglosassone, sono abituato a cantare un genere che è frutto del mosaico di culture quale è l’America e che spazia dai valzer viennesi, al rock e al pop, passando per il jazz di New Orleans. Credo fortemente nella contaminazione a livello artistico. Molte “canzonette” sono nate dall’ammirazione che i nostri compositori dell’epoca nutrivano nei confronti dei loro colleghi americani, che in quel periodo si potevano esprimere più liberamente dei nostri.

Il singolo d’esordio di Matteo Ferrari “Ma l’amore No”, è un celebre brano musicale del 1942, scritto da Giovanni D’Anzi e Michele Galdieri e cantato per la prima volta da Alida Valli, nel film diretto da Mario Mattoli Stasera niente di nuovo. La canzone venne poi incisa l’anno successivo da Lina Termini e da lì riproposta da moltissime voci: da Alberto Rabagliati a Milly, da Natalino Otto fino a Mina.

Matteo, riguardo la tua personalissima reinterpretazione dello storico brano “Ma l’amore no”, che anticiperà l’uscita del tuo album “Maramao”, cosa ti ha portato a scegliere di conferirgli un’atmosfera più drammatica rispetto alla versione originale, con un piano e voce molto teatrale, commovente, sentito e spogliato di qualsiasi orpello orchestrale?

Questa canzone è, non solo a parer mio naturalmente, il capolavoro di quegli anni e come dici tu, è stata cantata da moltissimi artisti nel corso del tempo. Oltre ad ascoltarne le numerose incisioni, a me piace andare all’origine delle cose: toccare lo spartito, cercarne varie edizioni, confrontarle e cercare di capirne il volere di compositore e paroliere; lo stesso approccio che avrei qualora cantassi un’aria o una song. Per me è molto importante la parola, nel teatro musicale viene usata per proseguire la narrazione. Pur non essendo stata scritta per il teatro, “Ma l’amore no” è molto teatrale: ho pensato al significato di quello che Michele Galdieri aveva scritto. In assenza di un personaggio da interpretare, ho messo al centro me stesso e le mie esperienze, anche dolorose e ponendole al servizio della musica le ho fatte fiorire. Volevo che l’ascoltatore si concentrasse sulle parole e che l’accompagnamento seguisse il ritmo della voce, come se fosse un soliloquio, per questo assieme a Riccardo Barba, il mio direttore musicale, abbiamo optato per una versione minimalista.

Il videoclip ufficiale del singolo “Ma l’amore no” sembra quasi uno stralcio di un film, o meglio un estratto di un’intima opera teatrale, una storia raccontata attraverso immagini e voce, piena di pathos e con un’atmosfera retrò curata nei minimi dettagli.

“Il personaggio che ho interpretato dichiara all’amata che, nonostante tutto, lui l’amerà per sempre e che riuscirebbe a perdonarle un tradimento. La ripetizione quasi ossessiva di questo pensiero lascia spazio a diverse interpretazioni. Amare vuol dire anche correre il rischio di ammalarsi, di impazzire. Non è facile affrontare un abbandono, ancora più difficile è accettarlo.”

Insieme al regista Matteo Scotton, a cosa vi siete ispirati per la realizzazione del videoclip, girato tra le maestose ville trentine di inizio ‘900? E ancora, qual è l’idea, il messaggio, la storia alla base del tuo video, cosa hai voluto raccontare attraverso una nuova interpretazione di questo storico brano?

Volevamo mantenere sia un legame con il Trentino, sia con l’architettura dell’epoca. Si tratta di due ville costruite fra i due conflitti mondiali in Valsugana, dove vivo. Matteo Scotton s’è ispirato a uno stile asciutto ed essenziale con rimandi al cinema italiano degli anni ‘50. Alle ville non è stato aggiunto nulla, tutto quello che si vede è originale. Lo styling è stato curato da Veronica Pattuelli, una bravissima costumista che ho conosciuto lavorando in teatro. È la prima volta che affronto un repertorio scritto non per il teatro, per questo motivo ho voluto rappresentare le mie esperienze di vita: la ricerca di un amore lontano e sfuggente, la malinconia di eterna attesa del futuro e, allo stesso tempo, la nostalgia del passato.

Rimanendo sempre legati al video di “Ma l’amore no” quanto ti ha aiutato avere una grande preparazione alle spalle, non solo come cantante ma anche come attore, per riuscire ad interpretare il brano ed a trasmettere l’emozione ed il sentimento, contenuti in esso, al pubblico?

Lo studio del personaggio che svolgo quando lavoro in teatro è stato fondamentale per arrivare a portare in scena sé stessi e i propri sentimenti. Vestire i panni di un personaggio teatrale può proteggere, “tanto non si è sé stessi”. Qui è stato diverso perché ho portato in scena me stesso: anni fa non l’avrei fatto ma ora mi sento cambiato, maturo, pronto a parlare di me in prima persona, come ho fatto con molta naturalezza in “Ma l’amore no”.

Infine, Matteo, cosa ti aspetti da questo tuo album-progetto culturale? Credi che una virata musicale verso il passato verrà apprezzata dal pubblico che forse, in un mondo proiettato continuamente verso il futuro, a volte ha anche bisogno di riscoprire le atmosfere, le emozioni e le sonorità del passato?

Spero che “Maramao” riporti in superficie questo repertorio, questi ricordi, in chi è meno giovane di me. Penso possa essere interessante, anche per chi è più giovane di me, basta essere disposti – e questo, oggi, non è semplice – ad ascoltare senza fretta. L’album uscirà per Bluebelldisc Music, la storica etichetta discografica italiana che ha pubblicato i primi tre album di Fabrizio De André”. Oltre a esserne onorato, li ammiro molto per il coraggio e la fiducia che hanno riposto in me: si tratta di un repertorio di nicchia, non certamente facile da far rientrare nelle logiche di consumo del mercato musicale odierno, ma che ha lasciato un’eredità indelebile nella storia della canzone italiana.