Dopo aver visto il documentario La Conversione, su questa storia di rinascita volevamo saperne di più. A parlarcene oggi c’è Giovanni Meola, il regista che questa storia l’ha portata sul grande schermo.

Ciao Giovanni, come è nata l’idea del tuo documentario La Conversione?

Ho conosciuto Vincenzo e Peppe, i due protagonisti de La Conversione, a poca distanza di tempo, entrambi nel 2014. Prima Vincenzo Imperatore, mentre scrivevo un soggetto teatrale (Meola è un teatrante di lungo corso ndr) legato al mondo delle banche e mi è capitato di leggere sul quotidiano la recensione del saggio-memoriale “Io so e ho le prove” di Vincenzo. In quel momento ho avuto la precisa percezione che fosse la prima volta che un insider rivelasse i segreti legati a quel mondo, infatti Imperatore è stato la prima gola profonda del sistema bancario italiano. Insomma, ho comprato il libro, l’ho letto velocissimamente e ho avuto l’intuizione che poteva essere il libro giusto per costruire qualcosa. Ho cercato Vincenzo, ci siamo presi un caffè insieme e pochi giorni dopo avevo già acquistato i diritti in esclusiva del suo libro, per un mio libero adattamento teatrale, che oggi è al sesto anno di vita, sempre con lo stesso titolo, “Io so e ho le prove”. Il saggio di Imperatore ha avuto un successo enorme e con lo spettacolo abbiamo superato superato le 65 repliche, che per una rappresentazione di questa natura non è affatto poco. Una curiosità: a febbraio dovremmo essere anche a Roma, a Tor Bella Monaca.

E con Peppe De Vincentis come vi siete conosciuti?

Poche settimane dopo, rispetto a Vincenzo, ho conosciuto Peppe. Anche qui la conoscenza è stata del tutto casuale ma estremamente fortunata perché due persone che non si conoscono tra loro, due mie conoscenze, mi hanno scritto nell’arco di 24 ore dicendomi: “sai per quello che fai e per come ti muovi tu nel campo della scrittura, teatro e cinema, dovresti proprio conoscere questa persona”; questa persona era Peppe. Tra noi l’empatia è nata subito, anche perché entrambi eravamo reduci da un appuntamento dal dentista, per cui eravamo tutti e due doloranti e questo ci fece molto ridere, sin da subito. E’ iniziata così, per caso, come è stato un caso che quando ho letto la recensione del libro di Vincenzo Imperatore era il primo anniversario della scomparsa di mio padre. Un caso fortunato, anzi due.

E l’idea di mostrare le storie dei due protagonisti in parallelo, come due facce della stessa medaglia, come è arrivata?

Entrambi i protagonisti del documentario La Conversione hanno scritto dei libri sulle loro storie, Peppe De Vincentis ha pubblicato il suo “Il campo del male”, casa editrice Pironti, e Vincenzo Imperatore invece ha scritto ben quattro libri sull’argomento banche, tra cui appunto “Io so e ho le prove”, di cui parlavamo prima, pubblicato con la casa editrice Chiarelettere. Quello che mi ha colpito nei racconti di entrambi è il fatto che non si tirino indietro, non dicono sono stati gli altri ma dicono “io”, Vincenzo dice candidamente “io sono stato uno dei protagonisti di questa schifezza che ha rovinato tanti imprenditori e cittadini, io sono stato un protagonista negativo di questa epopea”. Questo devo dire che mi ha colpito molto e infatti Il mio spettacolo teatrale mira a fare di Vincenzo una simpatica canaglia che ci mette la faccia e si prende tutte le sue colpe. Questo mi ha fatto venire voglia di misurarli insieme, il fatto che entrambi attraverso la scrittura, e la rivelazione dei loro mondi di provenienza, degli ambienti che li avevano connotati, la banca per uno e il carcere per l’altro, siano arrivati alla loro personale conversione. Insomma, Peppe è stato il terrore delle banche, delle gioiellerie e degli uffici postali, Vincenzo è stato un importante esponente della banca più importante d’Italia per moltissimi anni, insomma due facce di una stessa complessa medaglia.

Una domanda che è più una curiosità: Peppe e Vincenzo si sono conosciuti davvero durante quella cena?

Si, assolutamente. I due prima non si conoscevano, si sono incontrati ad un mio spettacolo, perché li avevo invitati entrambi, ma niente di più. Solo una decina di giorni prima di iniziare a girare il documentario La Conversione, parliamo quindi del 2019, li ho voluti rivedere insieme per spiegargli come come avrei voluto girare la cena, che è stata ripresa in tempo reale, senza stacchi e secondi chack. Tutto è così come lo vedete, loro dovevano avere la sincera curiosità di conoscere l’uno il mondo dell’altro; hanno, infatti, il loro spazio per raccontarsi nelle interviste dedicate, e poi i due s’incontrano solo per la cena, con quella genuina voglia di farsi domande. Poi, se mi chiedi perché la cena sia stata a casa di Peppe, la risposta è semplice: perché Peppe è un grande cuoco, invece Vincenzo non sa cucinare neanche un uovo.

E quindi come è stato filmare due sconosciuti che avevano “il compito” di conoscersi davanti alla telecamera?

Sul set tutto è stato molto naturale, l’unico mio intervento, senza farmi notare dalla macchina da presa ovviamente, è stato scuotere un po’ Vincenzo, intendo letteralmente. Peppe ormai fa l’attore da tempo, ma Vincenzo, pur essendo un uomo pubblico e spesso ospite televisivo, aveva una timidezza davanti alla mdp, una sorta di difficoltà ad entrare nel mood. Quindi quello che ho fatto io è stato scuoterlo fisicamente per le spalle, come per svegliarlo e permettergli di interagire in maniera vivida con Peppe; da lì, dopo quello scossone, devo dire che sono nate delle cose molto belle, io stesso sono stato sorpreso dalla qualità di domande che si sono posti a vicenda. In fondo, sapevo che sarebbe successo, perché un uomo che ha lavorato per 23 anni in banca non poteva non avere curiosità di come si facessero le rapine nelle banche e, viceversa, il rapinatore seriale non poteva non avere curiosità di come si ruba legalmente attraverso lo scudo della banche. E’ stato una conoscenza reale quella tra Peppe e Vincenzo, e molte parti di quella cena sono girate anche da me, in un gioco di passaggi di telecamera con l’operatore, perché io c’ero dentro, insomma li ho frequentati così tanto che forse conosco più cose di loro di quanto loro stessi ricordino; pensate che a volte ero addirittura io ad intervenire per ricordagli degli aneddoti interessanti che a loro sfuggivano, hanno vissuto così tanto che alcune cose rischiavano di andare perdute.

Sempre riguardo i protagonisti de La Conversione, Peppe De Vincentis e Vincenzo Imperatore, sappiamo che entrambi hanno avuto la loro personale conversione anche grazie all’arte. Secondo te ha influito il loro essere figli di Napoli, la città dell’arte per eccellenza?

Inizio col dire che la mia storia parte dal teatro ed è tutt’ora molto legata al teatro. Io sono un teatrante, un drammaturgo, un regista e con “Io so e ho le prove” sono in scena anche come attore, tornato sul palco dopo tanti anni. Durante le mie lezioni di formazione sono solito dire: così come Roma è definita il museo a cielo aperto più grande del mondo, possiamo dire che Napoli sia il più grande teatro a cielo aperto del mondo. Almeno in Italia e Europa, è difficile trovare una città che abbia la stessa predisposizione alla teatralità naturale come quella che ha Napoli, predisposizione che deriva poi dalla sua storia. Napoli è sempre stata una città invasa e dominata da dinastie differenti, pertanto il napoletano, per sua esigenza di sopravvivenza, ha sempre dovuto cercare di sopravvivere con dominazioni di lingua, cultura e provenienza diversa. Se non conosci il napoletano (il dialetto ndr) pensi sia una lingua bella, sonora, perfetta per cantare, ma in realtà ha radici molto complesse, con influenze che arrivano dal greco, spagnolo, francese, insomma, le lingue di tutte quelli che nel corso dei secoli hanno regnato su Napoli. Tutto questo per dire che la teatralità innata del napoletano deriva dalla sua storia, il napoletano ha dovuto imparare a comunicare con i gesti, per farsi capire dal dominatore, e con uno slang particolare proprio per non farsi capire dai dominatori, quindi è sempre stato un immenso e infinito gioco di ruolo,


Il napoletano ha sempre dovuto “recitare” per sopravvivere, questo è il motivo ancestrale del nostro legame con la teatralità.

Ed è questo che ha influenzato le vicende di Peppe e Enzo in maniera inconscia. Oggi che li conosco entrambi come le mie tasche, io stesso so quanto Enzo ha recitato, credendoci, nel fare il manager di alto profilo, quando stressava i dipendenti della banca, quando li stalkerava, bullizzava e manipolava; e so quanto ha recitato, per anni, la parte del delinquente Peppe, per poi scoprire di avere in sé delle doti per recitare davvero, per emanciparsi, almeno nell’ultima parte della sua vita, provando a fare davvero l’attore. Quindi sì, credo che ci sia questa componente come dato naturale, ovviamente inconscio.

Tu dici «una Napoli matrigna e invadente» abbiamo parlato della Napoli dell’arte, ma cos’altro c’è di questa città in queste due storie?

Io penso che Napoli, rispetto a tante altre città italiane, sia una realtà estremamente sfaccettata, complessa e articolata, nello stesso quartiere trovi ricchi e poveri, grandi professionisti e gente che non sa come sbarcare il lunario. Napoli è una commistione complessa, io la chiamo la città della totale contraddizione, ci trovi le persone più belle e generose del mondo ma anche le peggiori del mondo, è così: Napoli è un microcosmo. Quella dei protagonisti è stata una conversione, una sorta di inversione a “U” e le due storie sono sì parte di una stessa medaglia, ma sono anche molto differenti. Peppe ha operato fuori dalla legge, pagando poi con 31 anni di galera, 10 dei quali a suo dire ingiusti, ma è proprio in quella “ingiusta” condanna che incontra l’arte, ed ecco un’altra coincidenza. Enzo invece non ha mai pagato e non è stato mai accusato di nulla, perché abile nel lavorare all’interno di un sistema che ha fatto per 25 anni del terreno grigio tra lecito e illecito, tra legale e meno legale, la sua ratio, il suo modus operandi. Vincenzo inizia a parlarne per vendetta e strada facendo capisce che poteva fare anche del bene agli altri. Lui si voleva vendicare ma poi grazie allo svelamento di tutti quei segreti ha aiutato molta gente, tanto da aver fondato un’azienda che tutela piccoli e medi imprenditori dalle truffe delle banche. Appunto le persone migliori e peggiori del mondo, insieme.

Nel documentario, ma anche nella vita, si parla spesso della scalata al successo, la famosa scalata sociale e l’accumulo compulsivo di denaro, questione che accomuna un po’ tutti noi, non solo i due protagonisti. Secondo te La Conversione può essere una sorta d’insegnamento per il pubblico, una specie di messaggio di speranza?

Inizio col dire che, secondo me, le scalate sociali di questi due uomini sono molto connotate rispetto ai tempi in cui sono avvenute: Peppe comincia la sua carriera di ladro e rapinatore nel ’72, prima della guerra della Camorra, degli anni ’80. Peppe fa qualcosa in un periodo in cui rubare e rapinare non era ancora come è oggi, non c’era ancora il rapporto di tensione crescente reciproca tra malavita e società. Enzo invece fa un percorso diversissimo, lui proviene da una famiglia artigiana, in un quartiere popolare di Napoli, è il primo laureato della famiglia e prende l’ascensore sociale che poi nessuno ha potuto più prendere. Le loro scalate avvengono in un’epoca diversa rispetto a ciò che viviamo ora. Oggi è difficile scardinare tutto questo, oggi si parla di un capitalismo sfrenato, perché tutto è costruito intorno al denaro, come fosse una nuova religione; è chiaro che poi ci siano delle sacche di resistenza e pertanto, anche solo per cinque minuti, riuscire a far ragionare le persone rispetto a questi temi, mettendole di fronte a delle evidenze inoppugnabili e alle contraddizioni di questa società, senza e aggressività arroganza, può essere utile. Certo, poi magari non cambia nulla nella vita degli altri, ma questo è un altro discorso. Riguardo il messaggio, in realtà io non ho grandi messaggi da mandare al mondo e al pubblico, io cerco solo di raccontare qualcosa nel modo migliore possibile, ogni volta con una forma che sia giusta per quel progetto. Racconto delle cose che possono interessare o meno, suggestionare o meno, ma comunque cerco sempre di fare in modo che ci sia un impatto forte dal punto di vista emotivo, razionale e viscerale e poi se può davvero succedere qualcosa nelle persone, nel profondo, io ne posso essere solo che felice.

Dopo il Premio del Pubblico quale Miglior Documentario al RIFF – Rome Independent Film Festival, altri premi in altri concorsi e dopo aver vinto il bando della regione Campania, siete arrivati alle sale cinematografiche: com’è stata accolta dal grande pubblico la tua Conversione?

Io credo che nella vita non sia tanto importante ottenere delle risposte, ma riuscire a fare e a farsi le domande giuste. Quello che mi ha colpito durante gli incontri post proiezione, avvenuti finora, riguarda il diverso modo di accogliere il film e il suo contenuto da parte del pubblico. Come è giusto che sia con l’arte. Ognuno ci ha colto cose diverse, e questo è per me la conferma della bontà della scelta del tema che ho provato a portare sul grande schermo e a raccontare. L’obiettivo per me è sempre stato quello di suggestionare le persone e fare in modo che uscissero diverse rispetto a quando sono entrate in sala. Questo secondo me è il senso reale e profondo del provare a fare arte: creare una piccola modifica all’interno di chi assiste, ascolta vede e partecipa. E credo, stando alle parole di chi l’ha visto, che questo il film l’abbia saputo ottenere e questo mi ha gratificato e onorato moltissimo.

In ultimo, la domanda di rito: oltre a La Conversione, ci sono progetti futuri di cui vorresti parlarci?

Di progetti ce ne sono tanti, abbiamo già parlato di “Io so e ho le prove”, che va in scena da sei anni a teatro. Ora ho preso i diritti in esclusiva per farne anche un adattamento cinematografico e una serie tv, è un progetto molto ambizioso ed è complesso farlo partire ma ci stiamo lavorando. In parallelo sto costruendo un progetto teatrale con Peppe, sarà un racconto sulla sua vita, dal titolo: “Mi chiamavano Pepp O’Biond”. Allo stesso tempo, sempre con Peppe, stiamo cercando di ripubblicare il suo libro con un titolo diverso, riscritto e con aggiunte di racconti e aneddoti che lui prima aveva omesso, ma che a me aveva raccontato. Vorrei che il suo libro approdasse ad una grande casa editrice e, se riusciamo a fare questa cosa qui, Peppe già mi ha detto che vuole me per un eventuale adattamento cinematografico, quindi c’è anche questa ipotesi in ballo. Insomma, abbiamo molto su cui lavorare. Vi dico anche che, dopo aver trascorso nove mesi nel carcere di Poggioreale, uno dei posti più affollati, fatiscenti e problematici d’Italia, dove ho condotto un laboratorio di scrittura creativa e recitazione, con autorizzazione dal DAP a portare le telecamere all’interno, ho già pronto un altro documentario che uscirà nel corso del 2023, dal titolo Articolo 27 comma 3, che è il videodiario documentario di questi nove lunghi mesi di progetto.

La Conversione di Giuseppe Meola è quindi solo uno dei tanti e stimolanti progetti che il regista ha intenzione di mostrare al pubblico. Il film è prodotto da Virus Teatrali, Giovanni Meola e Andrea Valentino ed è arrivato in sala anche grazie al contributo della Regione Campania e della Film Commission che hanno voluto premiare questo brillante progetto, uno dei pochissimi ad aver vinto il bando per l’autoproduzione a livello regionale. Insomma, un grande traguardo quello delle sale ma non finisce qui: il documentario sarà disponibile su CHILI e CGTV e rimaniamo in attesa di poterlo vedere a breve anche su AMAZON PRIME.