Film italiano in concorso alla Festa del Cinema di Roma, La Cura di Francesco Patierno, rilegge in chiave moderna La Peste di Camus, mescolando realtà e finzione in una Napoli in pieno lockdown.

L’opera di Camus è un trampolino di lancio per La Cura di Patierno, un inizio e una fine in cui inserire dell’altro, la verità dietro la macchina da presa. Il regista, ormai avvezzo alla messa in scena particolare, stravolge il suo progetto iniziale, portando sullo schermo non solo la “semplice” trasposizione cinematografica de La Peste, ma la costruzione del film stesso.

La Cura, in sostanza, è questo: una pellicola che si racconta, con i piccoli gesti, le difficoltà, le indecisioni e il terribile contesto: il Covid-19.
Due linee narrative quindi, finzione e realtà, che sembrano viaggiare in parallelo ma che presto finiscono per fondersi in un’unica storia, tra le due epidemie, che fanno rimbalzare lo spettatore tra un dramma e l’altro.

E c’è da dire che la particolare idea del regista, con lo scorrere della narrazione, prende forma e diventa palpabile, dopo un legittimo spaesamento iniziale, lasciando immergere il pubblico in un racconto nel racconto.

Con La Cura, lo schermo è pervaso da una Napoli inedita, lontana dall’idea di città italiana movimentata e vociferante per eccellenza, ma immersa nel periodo più silenzioso degli ultimi tempi. Strade deserte, riprese dall’alto, soffocate da quel clima inquietante e sospeso che ci riporta indietro ai difficili giorni di chiusura totale. Nessuna canzonetta spensierata ma solo musiche tensive che accompagnano sia le riprese del film tratto da Camus che i momenti reali; quel continuo disinfettarsi prima di varcare la porta di casa, le mascherine, gli spostamenti ridotti al minimo, insomma tutto quello che il mondo ha vissuto, e qualcosa di quello che continua ancora a vivere.

Patierno decide di portare dentro l’inquadratura il tutto, davanti e dietro la macchina da presa; la troupe, gli attori, la scelta dei luoghi, sé stesso, insomma il backstage entra in scena e crea un doppio piano di lettura e di visione che spiazza, ma che poi finisce per compiersi completamente in un unico prodotto cinematografico difficile quanto liberatorio.

A parlare sono in pochi, anzi tutto tace, se non fosse per le voci dei protagonisti che recitano i loro ruoli tratti da Camus, i colpi di tosse dei malati ed il continuo scroscio del mare che sembra attendere, insieme a tutti, una cura. Ed è proprio questo il titolo del film, che racchiude tutto il senso dell’opera di Camus:

La paura, il sentimento di separazione, il contrasto tra la scienza e la fede, e soprattutto
la solidarietà e l’empatia tra le persone, come unico rimedio alla malattia.

Il tutti contro il nemico, che sia La Peste per il film o il Covid per il sottotesto, è la vera cura. Non c’è un buono, non c’è un cattivo, c’è solo l’umanità contro un male inaspettato che cerca di reagire come può, ognuno a suo modo. Tra quelle poche voci che rompono il silenzio c’è quella della religione, del credere e non negare niente, dell’affidarsi e del non disperarsi tra i perché della vita, al contrario della scienza che cerca la cura.

Tutto questo è perfettamente distribuito nel nutrito cast de La Cura, con Francesco Di Leva che interpreta il saggio medico Bernard e ancora, Alessandro Preziosi, Francesco Mandelli, Cristina Donadio, Andrea Renzi, Antonino Iuorio e Peppe Lanzetta. La napoletanità schierata al suo meglio, con il milanese Mandelli che rappresenta la nota dissonante, interpretando il Lambert di Camus che cerca di scappare dalla disperazione ma che poi capisce di dover lottare insieme agli altri. Ognuno ha il suo ruolo, il suo modo di affrontare la cosa, di reagire o disperarsi, di combattere o tentare di fuggire lontano, ognuno qui rappresenta un uomo e non solo un personaggio.

Camus e la modernità si fondono in un tema attualissimo con La Cura, un film che si rivela piuttosto complicato, vuoi per il tema ancora caldo, vuoi per la disperazione raccontata, ma anche per la sua struttura che, come voleva il regista stesso, rompe le aspettative del pubblico, dando una chiusura chiara solo sul finale, quando si riesce a scindere cosa sia vero da cosa sia film, ma soprattutto quale sia il punto di contatto tra le due “realtà” mostrate.