La Festa del Cinema di Roma continua, mentre le pellicole di qualità si susseguono una dopo l’altra. È il turno di Sanctuary, dalla regia di Zachary Wigon, con protagonisti Christopher Abbott e Margaret Qualley (ve la ricorderete nella parte dell’autostoppista hippie in C’era una volta a Hollywood).

L’eros è il fil rouge, il corpo dev’essere un ripiego, e tutto il fervore vitale può ardere solo nella propria mente: queste sono le uniche condizioni. Non appena le regole verranno infrante, nessuno di loro due sarà più al sicuro.

sanctuary recensione

Facciamo un passo indietro, con più calma. Un uomo, solo in una suite d’hotel, è impegnato in una conversazione al telefono quando qualcuno bussa alla porta.
Sull’uscio, una donna in tailleur professionale, caschetto biondo e sguardo intenso, fa il suo ingresso nella stanza. È lì per un’intervista legata a dinamiche lavorative, o almeno questo è ciò che traspare in un primo momento.

La verità è che Rebecca (Margaret Qualley) è un’escort dominatrix, intenta a far visita a Hal (Christopher Abbott), suo cliente abituale, mentre recita la parte di un copione. Tra i due c’è complicità e, seppur non toccandosi così come da regolamento, sperimentano un forte amplesso che vede il suo compimento anzitutto nella sfera psicologica e mentale.

È uno scenario senza dubbio intrigante, ad oggi (a qualche anno di distanza dal medioevo) nemmeno così inusuale. Tuttavia, ciò che ci mette in allerta in quanto spettatori è la piega angosciante che il tutto prende non appena questa complicità vacilla, lasciandoci spaesati e senza punti di riferimento.
È proprio su quest’aspetto che Sanctuary preme molto, ovvero la sottile linea di demarcazione tra realtà e finzione, specie nel caso di un legame unico come quello tra Rebecca e Hal, abili nello stare in continuo equilibrio fra le due.

Il gioco non lascia spazio a fraintendimenti, anche quando le cose si mettono male, tant’è che persino gli affronti più feroci appaiono una farsa. A questo proposito è quasi d’obbligo sottolineare lo spessore delle due interpretazioni, con un occhio di riguardo per Margaret Qualley, padrona indiscussa della scena.

La storia assume sembianze quasi meta-filmiche, ricordando a tratti il teatro, in uno sviluppo da “cinema d’isolamento” che ha luogo interamente tra le quattro mura della suite.
Ad accompagnare questa scelta narrativa vi è una regia scrupolosa, con movimenti di macchina curiosi ed anticonvenzionali, immersa in degli ambienti pitturati di rosso e verde, seguendo la linea estetica tipica del thriller.

Con Sanctuary, Zachary Wigon dimostra quanto un’ottima sceneggiatura sia di per sé un fattore chiave per la realizzazione di un grande film. Con un solo set e due attori, la potenza che possono sprigionare dei dialoghi ben architettati è fin troppo sottovalutata. È l’essenza del cinema, in un certo senso: una premessa semplice, a cui però seguono risvolti inaspettati e totalmente imprevedibili.

Questo gioco pregno di sensualità e peccato è criptico, austero nel suo schema, in grado di confondere tanto noi quanto i diretti interessati. Un romantic-thriller affascinante, coinvolgente, che stupisce senza mai perdere il ritmo, che si afferma come una delle grandi sorprese di questa edizione della Festa.