Dall’universo di Woody Allen, il film Un’altra donna (Another Woman) è figlio di un registro stilistico ben preciso: uscito nel 1988 e interpretato da Gena Rowlands, Gene Hackman, Mia Farrow, Ian Holm, Blythe Danner e Sandy Dennis, il lungometraggio delinea una fase bergmaniana della regia di Allen.

Ma prima è bene fare una premessa: con una pellicola così psicologica, così fatta di dialoghi e pensieri scritti e diretti da Woody Allen, è insensato separare l’arte dall’artista e dunque ignorare l’influenza della sua vita personale nei suoi film.
Per questo motivo, in tale recensione l’arte del regista non verrà glorificata ma umilmente trattata attraverso le mie opinioni.

Tale considerazione è personalmente inevitabile, nel momento in cui Woody Allen si fa portavoce dell’ utilizzo dei percorsi della mente per poter narrare nel cinema, spiando (a volte letteralmente con la telecamera) le persone da una finestra e racconta di un universo femminile attraverso i suoi occhi(ali). I suoi film sono certo importanti, ma conditi da un – a mio parere nemmeno così sottile – male gaze, una visione vouyeristica delle sue muse e dei suoi personaggi femminili.

Un’altra donna: la trama del film di Woody Allen

Lungo appena ottantacinque minuti, Un’altra donna racconta di Marion, una scrittrice newyorkese di mezza età e in procinto di pubblicare un nuovo libro, che cerca un appartamento in affitto per ritirarsi a scrivere senza essere disturbata. Si ritrova però ad essere invasa da delle confessioni, poiché scopre accidentalmente di poter sentire i colloqui che avvengono nello studio dello psicanalista, l’appartamento accanto.

La protagonista, così, viene particolarmente colpita dalla seduta una giovane donna incinta, finendo per trovare in lei una donna a lei opposta in cui, però, riesce a ritrovarsi. Dalle parole della giovane ragazza, infatti, scatenano in Marion il ricordo della vigilia del proprio matrimonio con Ken, quando l’ex moglie di lui irrompe nei festeggiamenti e fa una scenata, mentre la stessa Marion ha a che fare con l’insistenza del corteggiamento di Larry, amico di Ken.

Marion, curiosa di voler dare un volto alla donna ascoltata dallo psicanalista, una sera la segue ma si imbatte in Claire, una sua amica di vecchia data che non vedeva da anni, accompagnata dal marito, che per lei è uno sconosciuto. Escono, così, a bere insieme e subito si instaura tra Marion e l’uomo una certa complicità di gusti, finché Claire che ha bevuto troppo li accusa di flirtare. Questi avvenimenti inducono Marion a un ripensamento generale sulla propria vita: si rende conto di volere un rapporto più caldo con il marito e meno “borghese convenzionale”. 

Successivamente, e questa volta per caso e senza inseguirla, Marion incontra Hope, la paziente dello psicanalista che tanto l’aveva colpita.
Le due fanno conoscenza, pranzano insieme ed è lì che nel ristorante vede il marito in atteggiamento sentimentale con una donna, eppure Marion sembra essere presa da altro: il fatto che Hope aspetti un bambino la induce a ripensare alla propria adolescenza, al primo matrimonio naufragato a causa di un aborto perché lei considerava un ostacolo alla carriera la nascita di un figlio. 

Il film non ha una fine nel senso classico, non c’è epilogo, ma si conclude con una considerazione che non ha risposta precisa sul significato del ricordo.

Woody Allen e il registro stilistico in Another Woman

Il film è letteralmente un viaggio mentale dato da input sia interni, sia esterni, nel quale Marion (interpretata da Gena Rowlands) scopre di un’altra donna al di là di sé, sia rivedendo la sua relazione con il marito Ken (lei è “l’altra donna” rispetto al primo matrimonio del marito Ken e poi scopre che Ken ha un’altra donna che frequenta di nascosto), sia ritrovando un’altra sé (dunque, nuovamente, un’altra donna) nelle sue relazioni precedenti (quella con il suo primo marito e il flirt avuto con Larry), il tutto passando sempre per le parole, ancora, di un’altra donna, ovvero Hope, la ragazza incinta (interpretata da Mia Farrow) che ha attirato l’attenzione della scrittrice durante la sua seduta dal psicoanalista.

In questo percorso simil terapeutico, scopre che la sua natura algida intimidisce le persone, le quali finiscono per non fidarsi di lei. Il suo lato emozionale e passionale rimane sopito per anni, fino a che non inciampa nella voyeuristica scoperta dei segreti degli altri, che le fanno pensare ai suoi. In questo modo, dall’ essere isolata e incastrata in una routine, Marion prende sempre più contatto con la sua sfera emotiva e sul suo ricordo.

Questo cambiamento lo vediamo riflesso anche nel registro stilistico del film, in particolare nella messa in scena: gli spazi fisici in cui si muove Marion, come la sua casa e l’appartamento in affitto, sono spaziosi e ben arredati, ma non sono accoglienti. Essi presentano colori freddi come il verde, il grigio, il marrone o un giallo spento (predominanti anche negli abiti di Marion).

Anche nelle scene con più di un personaggio è evidente questo distacco, ad esempio, quando Marion e Ken appaiono insieme in una scena, in realtà non condividono spesso l’inquadratura (a volte comunicano in stanze diverse), oppure tra loro viene sempre posto un elemento decorativo. Inoltre, il contatto visivo diretto viene sempre evitato. 

Tuttavia, nel corso del film il suo cambio di atteggiamento è stilisticamente esaltato dall’abbattimento delle barriere visive create dalla messa in scena e alla fine della pellicola, la protagonista viene ripresa nella stessa inquadratura di altri personaggi, stabilendo con loro anche un contatto fisico.

Il mutamento di Marion si vede anche quando lei si apre ai suoi ricordi, facendo in modo che la verosimilità lineare del racconto venga abbandonata e i flashback distruggano la freddezza del presente.

Non si capisce bene cosa sia accaduto veramente e cosa sia immaginato, dando vita ad una vera e propria isteria da parte di Marion. E gli elementi che compaiono simboleggiano questo lasciarsi andare ad una dimensione onirica: la gabbia, la maschera, il quadro di Klimt, sono tutte apparizioni improvvise di un “non detto”, di tutto ciò che negli anni Marion ha represso.

In tutto questo, sembra palese che il ruolo dello spettatore deve essere quello di uno “spione”, così come fortemente voluto da Woody Allen: chi guarda è costretto ad invadere la privacy, ad indagare un dolore che potrebbe essere anche lontano da noi e, infine, giudicare.

Un’altra donna: una piccola parte dell’universo femminile secondo Woody Allen 

La premessa precedente è scaturita dal fatto che, diversamente da come solitamente si legge in giro, non ho intenzione di separare l’arte dall’artista, dunque separare la sensibilità di Allen nel trasporre i suoi personaggi, soprattutto quelli femminili, dalle allegations che l’esito del tribunale non ha di certo chiarito.

Questo non per fare un discorso politicamente corretto, ma perché non credo in Allen come regista che parla di donne alle donne e credo che i suoi problemi personali con il “gentil sesso” siano evidenti nei ritratti che porta sul suo schermo.

Le sue donne sono sicuramente variegate, ma sono sempre intrinsecamente giudicate da lui, sono carne da macello per lo spettatore pronto a godere di ciò che vede, sia che queste siano delle fanciulle ingenue da salvare, delle matte in menopause, bamboline sessualizzate o ragazze indipendenti, quasi “maschie”. L’importante è che non siano brutte. 

Marion in Un’altra donna è, comunque, il personaggio femminile meglio riuscito, nel senso che Woody Allen cerca di indagare davvero le sue emozioni e i suoi pensieri, senza filtrarli dalla lente di un altro protagonista maschile. O meglio, almeno in superficie.

Se la protagonista all’inizio sembra aver trovato un buon equilibrio tra essere una donna in carriera ed essere una donna in una rete sociale di famiglia e amici, scopre che però è tutto un inganno e inizia a rimpiangere le sue fredde e calcolate decisioni.

La sua in realtà non è emancipazione, ma sono daddy and mommy issues: lei in realtà è così perché plasmata dai genitori, che hanno voluto per lei una vita fuori dalla sfera domestica e che non le hanno mai donato il sentimentalismo del focolare.

Un’altra donna riassume così l’ambivalenza verso il femminismo presente nella società degli anni Ottanta: da un lato, il film ritrae attraverso la figura del padre il cambiamento di atteggiamento della società nei confronti dell’indipendente,

Dall’altro, l’insoddisfazione di Marion per il suo status di “indipendente” suggerisce che Another Woman sostenga in realtà un’ideologia radicalmente opposta a quella che a prima vista sembra difendere: la scelta della protagonista di opzioni tradizionalmente associate all’altro sesso, come il privilegiare della propria carriera rispetto alla vita familiare e il rifiuto di valori tipicamente considerati femminili (come la maternità e l’affetto), si presentano come le cause della sua crisi.

Woody crea un personaggio reazionario al femminismo degli anni ‘80, poiché punisce Marion per non aver perseguito quella che il film presume essere la “vera” natura femminile, cioè il sentimento e l’emozione. Pertanto, il film mostra come l’uscita delle donne dai loro tradizionali ruoli di genere porti solo all’infelicità e all’instabilità.

Per il regista, sembra che questa apparente maggiore libertà è solo un’illusione, perché Marion presenta una crisi femminile, per via dell’allontanamento dalla “ vera natura di donna”. Ma qui la domanda sorge spontanea: perché, invece, i suoi personaggi maschili possono essere tutto?