In un’epoca in cui siamo tutti troppo attenti agli schermi dei nostri smartphone, ci sono ancora forme d’arte che ci fanno staccare gli occhi dai nostri dispositivi canalizzando l’attenzione nei confronti di una street art made in Italy, in cui bisogna imparare a osservare da lontano. È da un concetto tratto da Le Città Invisibili di Italo Calvino quello a cui si riferisce la street artist Laika 1954 (ovvero alla frase “La forma delle cose si distingue meglio da lontano”) protagonista del documentario diretto da Antonio Valerio Spera dal titolo Life is (not) a game.
Presentato alla scorsa Festa del Cinema di Roma 2022 nella sezione Freestyle, Life is (not) a game è prodotto da MOREL FILM e SALON INDIEN FILMS e arriverà prossimamente nelle sale.

Il documentario punta lo sguardo su Laika, protagonista e artista dall’identità sconosciuta che affigge sui muri le sue opere provocatorie e ricche di denuncia sociale. In una Roma che si apprestava a conoscere la catastrofica esperienza del Coronavirus, appare su un muro del quartiere Esquilino un’immagine che mostra la ristoratrice Sonia Zhou e in cui si denuncia la dilagante insofferenza nei confronti di cittadini di origine orientale.
Poco dopo ci viene mostrato il poster in cui Regeni abbraccia Patrick Zaki, attaccato sul muro di fronte l’ambasciata egiziana, per denunciare la prigionia dello studente dell’Università di Bologna.
Life is (not) a game segue Laika in ogni sua affissione notturna, tutto si gioca sull’effetto sorpresa, ovvero sul’attenzione di passanti e osservatori per sensibilizzare e riflettere su tematiche che le stanno a cuore. Basti pensare ad una ripresa nervosa e realistica che segue Laika quando arriva il momento di mostrare il “muro della vergogna”. Uno striscione, o come dice l’artista “una srotolata”, di commenti razzisti presi direttamente dai cosiddetti “leoni da tastiera” che infestano la rete e creato per puntare l’attenzione su tematiche messe da parte durante il periodo pandemico.

Con un continuo flusso di informazioni Life is (not) a game mostra spontanei momenti della vita di Laika durante il lockdown e durante la creazione delle sue opere. Dalla narrazione incentrata sui pensieri e sulle azioni di Laika mostrandocela come unica protagonista, il documentario prende una piega differente ponendo l’attenzione sulle condizioni di precarietà che affliggono numerosi profughi.
Le inquadrature sembrano essere delle soggettive di Laika, una modalità di racconto che guarda con uno sguardo diretto ai percorsi compiuti e ad una narrazione differente rispetto a quel momento. Life is (not) a game espone i primi piani di alcuni profughi intervistati al confine con la Croazia. I dettagli inquadrati e le testimonianze raccolte diventano una sorta di collage che punta il dito verso il sistema dei game.
Attraverso un gioco di enfatizzazione, Life is (not) a game gioca con la musica sia durante tutto il suo percorso, sia sul finale in cui Laika lascia chiaramente intendere – attraverso una sua installazione – l’incertezza verso un futuro difficile da immaginare. Una serie di delicate tematiche socio-politiche e umanitarie si mescolano all’osservazione creativa di un’artista che a suo modo fa ciò che l’arte ha fatto in passato e continua ancora oggi a fare: attivare il pensiero critico delle persone a prescindere dalle loro idee personali.