A Muhammad Alì – The Greatest sono state dedicate diverse pellicole: un film mentre era ancora in vita, uno addirittura lo volle fare lui per parlare della sua carriera mentre ancora boxava e tra documentari e fiction si è arrivati al punto che parlare del pugile più famoso di tutti i tempi è ridondante e soprattutto e quasi impossibile in maniera originale.
A raccogliere la sfida ci pensa il documentario in 4 episodi, Muhammad Alì, diretto da Ken Burns, Sarah Burns e David McMahon, da poco sbarcato in America sulla PBS.
Avvalendosi di filmati d’archivio, di testimonianze inedite ed esperti storici e di boxe, questa serie si propone di parlarci dell’uomo, del pugile, dell’attivista, di come e perché questo ragazzo di Louisville fu capace di diventare il più grande atleta di ogni tempo.
La chiave per il successo in un’operazione di questo tipo è il ritmo, ed in questo bisogna ammettere che Muhammad Alì centra pienamente l’obiettivo, per quanto costretta a semplificare gli eventi storici in virtù di un pubblico non così edotto nella boxe o nella politica di quegli anni.
Quattro “round” di circa due ore per ripercorrere la vita di un ragazzo che non soffrì la fame come tanti suoi coetanei, ma sviluppo comunque una coscienza sociale vicina ai più bisognosi, fin da bambino si dimostrò insofferente verso le regole dei bianchi e verso quella linea che delimitava un limite che le persone di colore non potevano oltrepassare.
Muhammmad Alì, nato Cassius Clay, viene descritto in questo documentario come una persona dalla volontà ferrea con un’insaziabile necessità di ribellione e di rottura con ciò che lo circondava.
Ken Burns non ama la retorica, non ama i ritratti banali e scontati infatti il documentario ci mostra l’umanità del campione in ogni aspetto quindi anche i suoi difetti.
L’Alì che si rifiuta di andare in Vietnam per combattere contro chi non l’ha mai chiamato “negro” e spinge migliaia di ragazzi a non arruolarsi, che aiuta chiunque senza badare a spese e visita bambini malati, nasconde una doppia faccia: è lo stesso che tradisce la moglie – anzi le mogli – denigra le donne e insulta l’avversario Frazier con epiteti razzisti.
Michael Mann in Alì (2001) lo aveva mitizzato, Regina King, in One night in Miami (2020) ci aveva parlato di come fosse diventato un eroe per il mondo degli afroamericani a soli vent’anni.
Questo Muhammad Alì invece mira a parlarci della sua vita, di chi gli passava affianco, toglie l’oro della gloria, in favore della carne, del sangue, della verità.
Ecco Muhammad Alì che batte contro ogni pronostico il Sonny Liston distrutto dalla mafia dei bianchi, da se stesso, la sua infanzia con il padre pittore, l’oro a Roma, il drammatico addio contro l’ex allievo Larry Holmes, la rivalità titanica contro Joe Frazier, il capolavoro contro Foreman.
Emergono difetti come pigrizia, narcisismo, ma anche l’umiltà di mettersi in discussione, di capire chi e cosa rappresenta, che non ci sarà mai più un altro come lui e che quindi non può sbagliare, non può distrarsi, non può dimenticare che lotta per se stesso ma non solo.
Muhammad Alì non riesce ad arrivare al livello di un capolavoro come Facing Alì, ma rimane una serie vibrante, interessante e capace di staccarsi dalla banalità, dal già visto o meglio dal già raccontato.
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