Una famiglia. Tre fratelli. Una vita nella periferia newyorkese. Una casa che sembra immersa in una dimensione a sé. Tanta voglia di rimanere bambino, che si contrappone a un’obbligata crescita prematura. Quello che il cineasta statunitense Jeremiah Zagar ha voluto mettere in scena nel suo Quando eravamo Fratelli – tratto dall’omonimo romanzo di Justin Torres – è sì un tema più e più volte sfruttato nel corso di più di centoventi anni di storia del cinema, ma, allo stesso tempo, è qualcosa di talmente personale e delicato da necessitare ogni volta, per forza di cose, un punto di vista del tutto personale. Meglio ancora se si attinge a piene mani dal proprio passato.

E questo è, dunque, proprio quello che Zagar ha fatto, dando vita a un prodotto del tutto soggettivo, delicato e raffinato. Un romanzo di formazione con un taglio registico del tutto innovativo e un giovane protagonista (impersonato da Evan Rosado, qui al suo esordio sul grande schermo) perfettamente in grado di reggere un intero lungometraggio.

Recensione Quando eravamo fratelli
Prende il via, così, la storia di Jonah, un bimbo di nove anni che vive insieme ai due fratelli maggiori, Manny e Joel, e ai suoi genitori, in un’isolata casetta di campagna. “Ma” e “Pa” sono innamorati. Molto innamorati. Ma è davvero sano questo loro amore o si tratta di un rapporto di dipendenza reciproco che può sforare in atti violenti e autodistruttivi? Tutto quello che, qui, non funziona, non sfugge agli occhi dei tre bambini, ognuno dei quali reagisce a modo proprio, compiendo piccoli furti o atti vandalici, oppure, come nel caso di Jonah, chiudendosi in sé stesso e disegnando con pastelli colorati figure stilizzate su di un foglio su cui precedentemente era già stato scritto.

Ogni cosa rappresentata in Quando eravamo Fratelli ci viene mostrata esclusivamente dal punto di vista del piccolo Jonah. La macchina da presa (usata rigorosamente a mano) dal canto suo non abbandona mai il ragazzino, facendo in modo che lo spettatore stesso si identifichi con lui e proprio come lui percepisca ciò che sta accadendo intorno. A questo punto, dunque, entra in gioco un riuscito fuori campo, con scene di violenza solo udite attraverso porte chiuse e (non troppo) vagamente immaginate (il maestro Michael Haneke sembra saperne molto in merito), per un crescendo di tensione che, tuttavia, viene ben presto smorzato nei momenti in cui il giovane protagonista dà vita a disegni destinati a prendere vita e a generare, a loro volta, variopinte forme mutanti.

Recensione Quando eravamo fratelli
Particolarmente riuscita, a tal proposito, la relativa animazione a passo uno che ben si sposa con l’uso della pellicola in 16mm adoperata per il girato in live action, conferendo al tutto una gradita atmosfera retrò, la quale, a sua volta, contribuisce ulteriormente a far sì che un prodotto come Quando eravamo Fratelli assuma connotazioni universali. La storia messa in scena è accaduta ieri, come può accadere oggi o, addirittura, domani. Persino le ambientazioni non presentano alcun elemento che possa collocare il tutto in un’epoca precisa.

L’approccio quasi neorealistico del regista, dal canto suo, rivela una già provata abilità di quest’ultimo nel campo del documentario e, allo stesso tempo, sta quasi a indicare che, paradossalmente, proprio il cinema di finzione potrebbe rendere al meglio le sue qualità di cineasta. Il suo Quando eravamo Fratelli è indubbiamente un piccolo gioiello della cinematografia contemporanea, con echi chiaramente truffautiani e la gioia di vivere “urlata” di Zero in Condotta di Jean Vigo.