Il successo con cui è stato accolto il recente Ghost Stories conferma la vitalità di un genere del fantastico che è nato insieme al cinema stesso. A partire dal primo Il fantasma dell’Opera (girato nel 1925 da Rupert Julian e interpretato da Lon Chaney) fino a Shining di Kubrick e ai moderni film di spettri giapponesi tecnologicamente molto avanzati, il grande schermo è stato sempre popolato da ectoplasmi, a volte cattivi a volte buoni, che hanno provocato gridolini di spavento in milioni di spettatori.
Il film ultimo arrivato dei registi inglesi Dyson e Nyman recupera la struttura portmanteau (episodi raccordati da una cornice unificante) impiegata nei classici degli anni ’40 della casa di produzione Ealing (classici tra i quali resta memorabile Incubi notturni) e contiene citazioni, ironia e interventi meta-filmici che rendono godibile lo spettacolo ma suscitano anche qualche riflessione sulla natura dei fenomeni paranormali (come facevano, appunto, anche i titoli di una volta ma anche qualcuno più recente come Creepshow.).
Dunque i fantasmi al cinema attraggono e se questo accade vuol dire che noi abbiamo bisogno di essi per liberarci dalla razionalità ed evadere nella dimensione del soprannaturale. Se questo sia un bene o un male è questione di punti di vista,ma fatto sta che, come non si stancava di ripetere Carl Gustav Jung, il mostrarsi troppo scettici in materia di misteriose presenze può riservare brutte sorprese. Comunque, uno dei meriti dei film di fantasmi resta quello di metterci a confronto con fenomeni inspiegabili che magari esorcizziamo con una risata ma poi ci fanno pensare. Senza raggiungere il livello di Suspense (Jack Clayton, 1962) e di Gli invasati (Robert Wise, 1963), molti altri titoli sul tema ci hanno rivelato l’esistenza di quello che Freud chiama “il perturbante”, cioè la presenza nel quotidiano di fenomeni strani che suscitano spaesamento e paura. Questi non sono effetti illusionistici da baraccone ma sono le immagini allo specchio del lato oscuro di noi stessi, quel lato che proiettiamo sui personaggi dei film mediante una identificazione allucinatoria favorita dal buio della sala cinematografica.
Oltre ai fantasmi notturni della tradizione fantastica ci sono poi quelli diurni, cioè le immagini sempre ritornanti della nostra mente di cose e di persone viste e perdute, ma anche di film il cui ricordo ci accompagna nella nostra vita, come sono le immagini del recente film di Arnaud Desplechin intitolato appunto I fantasmi d’Ismael. Per liberarci di questi nostri fantasmi interiori riflessi sullo schermo non servono i burloni ghostbusters del film omonimo ma servono bravi psicoterapeuti che li facciano emergere dal profondo dell’inconscio di ognuno. Oppure serve la loro oggettivazione mediante l’arte, impresa in cui soprattutto il cinema può aiutare in virtù della sua natura onirica e fantasmatica capace di dar vita alle ombre. Un processo,questo, che ha salvato molti registi dalle loro nevrosi o peggio psicosi, come dimostra il caso del maestro italiano dell’horror paranormale Dario Argento (cioè uno che con i suoi incubi notturni e diurni ha imparato a convivere da sempre e che li ha condivisi sullo schermo con milioni di spettatori giovani e meno giovani poco o molto perturbati).