Molti l’hanno già vista e tanti altri si accingono a vederla. Stiamo parlando della serie televisiva sudcoreana Squid Game che ha suscitato l’interesse non solo degli spettatori di tutto il mondo, ma anche di critici televisivi e di studiosi di varie discipline come la sociologia e la psicologia.

La serie rientra nel genere non nuovo del survival game basato su alcune prove di crescente difficoltà che i concorrenti devono superare per vincere il torneo pieno di pericoli manifesti o nascosti preparati dagli organizzatori.
Nel nostro caso le prove sono ispirate ad alcuni giochi praticati dai bambini sudcoreani con la novità che chi perde viene ucciso e chi sopravvive a tutti i concorrenti in gara riceve l’intero premio in danaro accumulato nel corso della partita. Ad accettare le regole del gioco è una nutrita squadra di persone che vivono in condizioni economiche disperate e che scelgono di partecipare all’infernale torneo piuttosto che rassegnarsi a tornare al loro privato inferno quotidiano.
Durante i nove episodi andati in onda si distingue per umanità un uomo di nome Gi-hum che resiste fino alla fine nel crescente gioco al massacro reciproco che ha luogo sotto gli occhi delle guardie dentro un geometrico universo concentrazionario, gioco che si articola in una serie di gare sempre più cruente allestite da un misterioso organizzatore a beneficio di un gruppo di vip mascherati che si godono le eliminazioni dei malcapitati con gusto sadico e pervertito.

Il merito del creatore e regista della serie Wang Dung –hyuk è stato quello di scegliere una chiave drammatica al posto di quella in fondo innocua del genere fantasy cara agli spettatori adolescenti che hanno amato ad esempio Hunger Games.
Gli episodi attraversano tutti i generi  con un riuscito equilibrio narrativo che rende complessa, ma unitaria la logica del racconto. Infatti si va dalla cifra intimistica (nella lunga sequenza delle reciproche confessioni delle due ragazze in gara) a quella horror (nella scena in cui gli organi dei morti vengono espiantati per essere venduti ai trafficanti) a quella thriller (la fuga all’esterno del poliziotto infiltratosi  nella speranza di ritrovare il fratello scomparso) e quella di pura suspence (l’ultimo gioco del ponte di vetro).

A parte le qualità della sceneggiatura e della regia (e anche della recitazione degli attori), il merito maggiore di Squid Game risiede altrove. Esso risiede nel porsi come metafora dell’oggi in cui tutti viviamo e non come proiezione distopica di un futuro disumano, di un oggi regolato da un capitalismo sfrenato che antepone il danaro a ogni altro valore etico, un capitalismo mondiale che vede allargarsi sempre più la forbice tra i pochi ricchissimi e i tanti poverissimi con la nascita di nuovi schiavi senza alcuna possibilità di emancipazione sociale.

I partecipanti al gioco mortale possiamo essere prima o poi tutti noi se non si rivede la logica di questa unica logica basata sul profitto. La cosa paradossale è che a farci capire questa amara verità non è un qualche famoso regista dall’impegno ideologico ma è una produzione televisiva del colosso della serialità Netflix. Ma va bene così.