Dunque, al recente festival di Cannes 2015 il cinema italiano ha registrato una clamorosa sconfitta. Ai tre registi nostrani (alla vigilia dati da molti per favoriti), Moretti, Garrone e Sorrentino, neppure un riconoscimento minore, nulla di nulla. Colpa dello sciovinismo francese, lamentano i sostenitori del terzetto romanocentrico, colpa dell’assenza in giuria di un valido sostenitori degli italiens in gara, dicono altri, no, colpa del presidente della giuria gli americani fratelli Coen aggiungono altri ancora. La verità è che il cinema italiano ha avuto quello che merita. E’ stato giustamente ignorato perché non sa parlare dell’oggi e neppure del nostro futuro prossimo, perché resta ancorato a una espressione del mondo privato dei registi (cosa buona se si tratta del mondo onirico di un Fellini ma poco interessante se esso è quello di Moretti o di Sorrentino come accade nei loro due film in concorso Mia madre e Youth) mentre la realtà odierna di tutti noi, quella realtà in divenire su cui il cinema è chiamato a far luce, è assente in tutti e tre i film in gara (dei quali due sono troppo personali elaborazioni di lutti reali o figurati e un terzo, Il racconto dei racconti di Garrone, scantona nel fantasy patinato e lussureggiante (tradendo peraltro anche lo spirito macabro dei racconti originali dello scrittore seicentesco Basile, dal momento che, semmai, era alla poesia lugubre barocca di un Ciro di Pers piuttosto che alla poetica della maraviglia di un Giambattista Marino che avrebbe dovuto ispirarsi il regista facendo un horror in piena regola piuttosto che la favola, bella forse da vedere ma vuota di senso perturbante, che ha fatto).

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Sulla qualità delle opere, un Moretti bifronte mezzo dolens e mezzo ridens dove una delle due dimensioni è di troppo (e poi basta con queste storie di registi/e ora pure di registe in crisi creativa!) e un Sorrentino virtuoso ma senz’anima con un mortifero film d’attori infarcito di letteratura filosofica di seconda mano (anche qui protagonista un regista che si confronta con un direttore d’orchestra sulla fortunata giovinezza passata, la loro) e un Garrone in vacanza dalla realtà ripiegato su cromatismi e pittoricismi fini a se stessi (dopo i Taviani con il loro Boccaccio illustrato, che sia questo rifugiarsi nelle novelle antiche un modo per evitare di confrontarsi con la realtà ?). Assente, in queste opere, è Il cinema come linguaggio rivelatore (quel cinema presente invece, per fortuna, nel film di Audiard Dheepan giustamente premiato e in altri titoli di cinematografie lontane di autori sconosciuti), assente è quel cinema che sa spostare in avanti la soglia del visibile invece di rimestare in bella forma nel già visto e nel già sentito, quel cinema che invece a livello puramente spettacolare in Mad Max è risultato capace di invenzioni visive mozzafiato inserite in una parabola non banale sul futuro che ci attende. Ininfluente e provinciale, così è apparso anche quest’anno a Cannes il cinema italiano, a ulteriore conferma dei suoi secolari limiti genetici, storici e artistici che ne fanno un cinema dove, quando va bene, parlano gli attori e i costumi ma la cinepresa tace e lo sguardo non sorprende.