Un padre, un figlio. Un giovane attore bambino e un rapporto intenso e complicatissimo. Qual è il prezzo da pagare quando si diventa famosi già da giovanissimi? Tutto questo è presente in Honey Boy, diretto dalla regista e documentarista Alma Har’el, nonché prodotto, scritto e interpretato da Shia LaBoeuf. Ma, di fatto, qual è la genesi del presente Honey Boy? L’attore, produttore e ora anche sceneggiatore Shia LaBoeuf è da molti e molti anni – addirittura sin da quando era ancora un bambino – uno dei volti più noti e amati della grande industria hollywoodiana. Eppure, si sa, come spesso accade alle ex star bambine, la vita frenetica sotto i riflettori e la continua necessità di compiacere a pubblico, registi e produttori spingono a una vita di eccessi, spesso sregolata, con una forte, fortissima voglia di ribellarsi contro tutto e tutti. Questo, dunque, è quanto è accaduto al nostro Shia,il quale, qualche anno fa, dovendo seguire un percorso di riabilitazione, ha seguito il consiglio della sua terapista e ha messo per iscritto cosa lo ha portato, nel corso degli anni, a sviluppare tutte le sue problematiche. Ovviamente, il rapporto con suo padre, ha svolto qui un ruolo centrale.

Così, dunque, ha preso vita Honey Boy, un film inizialmente arrabbiato, urlato, ma dal quale ne viene fuori un ritratto di Otis, un ragazzino costretto a maturare troppo in fretta, e di suo padre James (qui impersonato dallo stesso LaBoeuf), tanto apparentemente aggressivo e sicuro di sé, quanto, in realtà, estremamente fragile, insicuro e che tiene talmente tanto al proprio figlio che la paura di poterlo perdere ha la meglio su ogni qualsivoglia bisogno di tenerezza.

Ciò che immediatamente ci colpisce in Honey Boy è un montaggio frenetico, velocissimo nel mostrarci la quotidianità di Otis, divenuto ormai un adulto e un attore di successo. Almeno fino al momento del suo incidente in macchina a causa di eccesso di velocità e uso di stupefacenti. Poi, pian piano, il tutto assume dei ritmi più “standard”, a tratti anche contemplativi, soprattutto nei lunghi flashback che ci mostrano Otis da bambino e il suo burrascoso rapporto con suo padre.

Sebbene, dunque, di quando in quando l’intero lavoro scada in qualche momento, piuttosto nel retorico e nel già visto (impossibile non pensare, ad esempio, al bellissimo Un Sogno chiamato Florida, diretto da Sean Baker nel 2017), complessivamente la regista Alma Har’el ha realizzato un buon lavoro, con non pochi momenti toccanti al proprio interno, il quale è forte soprattutto di una scrittura sentita ma mai eccessiva, del tutto personale ma anche con una giusta obiettività nel descrivere gli eventi. Particolarmente interessante, a tal proposito, è proprio il rapporto tra Otis e suo padre James, il quale, se inizialmente ci sembra assai respingente e praticamente del tutto negativo, ecco che pian piano lascia emergere il vero sé, con tutte le sue debolezze e il suo disperato amore per suo figlio.

Non si può dire ancora per quanto tempo dopo la visione ci si ricorderà ancora di un lungometraggio come Honey Boy. Fatto sta che questo piccolo e intimo lavoro riesce appieno a comunicare ciò che vuole. E questa, siamo d’accordo, non è cosa da poco.