“L’arte non è la mera rappresentazione della realtà. L’arte può creare la propria realtà. Non pensate ‘non lo capisco’. Non c’è niente da capire. L’idea è abbracciare l’esperienza, così come viene proposta ai vostri sensi”. La voce fuori campo dei primi istanti di Il Mio Capolavoro si rivolge direttamente allo spettatore, mentre sullo sfondo i dettagli delle pennellate di un dipinto vengono scrutati dallo sguardo del regista Gastón Duprat, quasi come una leggera ipnosi prima di un’amara confessione: “Vendo opere d’arte e il mio segreto è che sono un assassino”.

Arturo Silva (Guillermo Francella) è un commerciante d’arte con una propria galleria a Buenos Aires, in cui espone da sempre le opere del suo miglior amico, Renzo Nervi (Luis Brandoni), uno dei pittori argentini più famosi degli anni ottanta. Un giorno Renzo si trova a un passo dalla morte a seguito di un grave incidente stradale. Toccherà ad Arturo decidere se staccare la spina che tiene in vita il pittore.

Il Mio Capolavoro esplora con cinismo e ironia un Paese che vive perennemente in balia delle illusioni e in cui l’arte ha perso la propria essenza, diventando un semplice oggetto di scambio. In un’Argentina ricca di contraddizioni e incapace di seguire la bussola, troviamo esemplificati, ma non per questo privi di spessore, due personaggi agli antipodi: da un lato l’artista squattrinato dai modi burberi e scontrosi, dall’altro un commerciante interessato a trarre maggior profitto delle opere che vende.

La sceneggiatura curata dallo stesso regista e da Andres Duprat mantiene i meccanismi ben oliati durante i vari botta e risposta tra Francella e Brandoni, spesso a loro agio nel rincorrersi l’un l’altro per poi ritrovarsi sistematicamente a ogni chiusa. Dopotutto Il Mio Capolavoro è un buddy movie sotto mentite spoglie, perché la critica alla mercificazione dell’arte e la vena thriller suggerita nel preambolo rimangono in sordina, facendo capolino solo quando la solida amicizia tra Renzo e Arturo tende a vacillare.

La regia deve quindi cedere il passo alla spassosa mattanza del duo e alle loro amare risate che richiamano a tratti il fantasma della vecchiaia e della morte. Dupras si concede la libertà di sporadiche pause dal tono malinconico in una metropoli consumata dagli anni, allontanando per qualche secondo lo sguardo dai protagonisti. Ma nell’arte, come nella vita, sono i piccoli dettagli a fare la differenza.